Le memorie di Graziano Verzotto, ovvero l’arte di mentire senza ritegno

PREMESSA: IL LIBRO CHE NON SCRISSI  – Ho personalmente conosciuto Graziano Verzotto all’inizio del 1995. Avevo cercato di mettermi in contatto con lui, tramite una sua nipote mia allieva, alla metà degli anni ’80, mentre attendevo alla stesura del libro Camposampiero 1866-1966. Un Comune dell’Alta Padovana nel crepuscolo della civiltà contadina, la mia prima pubblicazione storica. Speravo di avere da lui delucidazioni sulla resistenza nel camposampierese e sull’eccidio di S. Giustina in Colle del 27 aprile 1945. Fu invece lui a contattarmi, sul finire del 1994, tramite un comune conoscente. Chiesi ed ottenni la sua disponibilità a parlare anche del periodo trascorso in Sicilia e del caso Mattei. La maggior parte degli incontri si tenne a casa sua, a S. Giustina, nel corso del 1995. Le conversazioni furono registrate su audiocassette che, una volta sbobinate, hanno riempito l’equivalente di duecento cartelle. Nonostante il morbo di Parkinson dimostrava una memoria di ferro. Lo trovai mentalmente molto lucido anche nel dicembre del 2006, quando lo incontrai per l’ultima volta in una casa di riposo di Padova presso la quale si era ritirato in compagnia della moglie.

Mi mise subito a disposizione foto e documenti del suo archivio personale, compresi molti articoli di giornali riguardanti le sue disavventure politiche e giudiziarie. Mi consentì addirittura – prassi più unica che rara – di portarmeli a casa per fotocopiarli. Anche se mai formalizzata in un vero e proprio accordo, prese subito consistenza l’idea di ricavare dalle sue testimonianze un paio di pubblicazioni: l’una focalizzata sul periodo resistenziale (1944-45); l’altra sul periodo siciliano (1947-1975). In funzione del secondo obiettivo mi fornì anche uno Schema di una biografia di G[raziano] V[erzotto], un manoscritto di dodici pagine più volte citato nelle mie pubblicazioni. Alla prova dei fatti si mantenne sempre piuttosto reticente od elusivo sugli episodi cruciali della sua vita pubblica, tipo retroscena, natura e portata degli accordi raggiunti coi nazifascisti nel dicembre del 1944, eccidio del 27 aprile 1945, vicende Mattei e De Mauro. Nel 1999 uscì il libro Resistenza e normalizzazione nell’Alta padovana (1943-1948), che riservava molto spazio alla sua esperienza resistenziale.

I suoi tanti “non so” mi impedirono, invece, di dar vita all’ipotizzato volume sulla sua vicenda siciliana. Troppe le incongruenze emerse fra le sue ricostruzioni e/o interpretazioni dei fatti e quelle proposte dalla saggistica e dalla pubblicistica esistenti, da me sistematicamente consultate nel corso dello stesso 1995. A quell’epoca davo per scontato che il mio interlocutore morisse dalla voglia di vuotare il sacco sulle pagine torbide della Prima Repubblica che lo avevano visto protagonista, comparsa o testimone, visto che sedici anni di latitanza all’estero mi sembravano un conto abbastanza salato pagato alla giustizia del Belpaese. Non sospettavo minimamente un suo coinvolgimento nella vicenda Mattei, che pure già allora interpretavo come una covert operation della Guerra Fredda. Mi impressionò molto il ragionamento su cui egli basava la sua estraneità all’evento e cioè l’assurdità di una partecipazione al complotto contro Mattei di un soggetto che avrebbe avuto tutto da perdere dalla scomparsa del proprio maestro e protettore e dall’ascesa di Eugenio Cefis, suo avversario storico. Ovviamente non era vero, ma questo lo scoprii solo più tardi. Men che meno sospettavo un suo coinvolgimento nel sequestro-soppressione del giornalista Mauro De Mauro, presentato come un amico di vecchia data.

Così Graziano si rivolse ad altri autori per completare il progetto di restyling della sua immagine pubblica. Ed ecco Il processo ad Ada Giannini per l’eccidio nazista di S. Giustina in Colle di Enzo Ramazzina;  Le tre brigate Damiano Chiesa di Guerrino Citton; Dal Veneto alla Sicilia. Il sogno infranto: il metanodotto Algeria-Sicilia, a cura di Guerrino Citton.

Solo in un secondo momento mi resi conto che anche il mio volume Resistenza e normalizzazione nell’Alta Padovana rientrava in qualche modo nell’operazione promozionale della sua immagine iniziata con l’affidamento all’ex giornalista parlamentare Salvatore Brancati dell’incarico di scrivere un pamphlet idoneo a demolire la credibilità di Tommaso Buscetta, il mafioso dissociato da Cosa Nostra che nel 1994 l’aveva pesantemente chiamato in causa per il delitto Mattei. Ebbi modo di interloquire personalmente col signor Brancati a casa di Graziano e venni anche coinvolto nella valutazione delle bozze del suo libro. Ricordo che sollecitai una moderazione dei toni polemici usati nei confronti del celebre collaboratore di giustizia, perché l’eccesso di sarcasmo avrebbe prodotto un effetto opposto a quello desiderato. Il librò uscì nel 1997 col titolo Enrico Mattei? Un pescatore di trote… Lunga intervista a Graziano Verzotto,ma passò pressoché inosservato. Avrebbe dovuto contenere nel titolo l’espressione “Un cacciatore di trote” per ironizzare ancora più pesantemente sulla partita di caccia evocata da Tommaso Buscetta come pretesto per attirare Mattei nella trappola siciliana.  

PAROLA DI AGIOGRAFO –  Per la stesura materiale delle sue memorie Graziano si è avvalso della penna del prof. Guerrino Citton, che sostiene di aver condotto le sue interviste nel biennio 2007-2008 con «la massima franchezza», in modo da «offrire al lettore la reale dimensione dei fatti raccontati» (p. 14 del libro di memorie Dal Veneto alla Sicilia). Alla prova dei fatti ha dimostrato di aver recepito senza alcuno spirito critico tutte le versioni ammannite dall’intervistato. La sera della presentazione del libro in una sala consiliare di S. Giustina in Colle stracolma di pubblico si è persino speso in prima persona per asseverare la credibilità e la dirittura morale del suo intervistato, presentato come una vittima delle maldicenze popolari e delle persecuzioni comuniste. Con ulteriore sfoggio di fantasia, in quella specie di postfazione del libro che ha intitolato Considerazioni finali (pp. 207-208) ha ricondotto i «guai politici prima e giudiziari poi» di Graziano alle «due concezioni dell’amministrazione statale presenti già all’inizio dell’unità d’Italia» e ha fatto discendere la prima dal «centralismo statale» e la seconda dal «federalismo», due categorie interpretative di evidente ascendenza leghista. L’errore del Nostro sarebbe stato quello di aver creduto «ad una possibile convivenza fra autonomia regionale e centralismo statale», in quanto «paladino dell’aspirazione della Sicilia a riscattarsi dalla condizione di sottosviluppo, facendo affidamento sulle proprie forze e sulle proprie risorse». Resosi in tal modo inviso «agli statalisti a qualsiasi partito appartenessero», Graziano sarebbe allora diventato bersaglio di una «ben orchestrata campagna di stampa», per effetto della quale «venne prima isolato e costretto alle dimissioni da presidente dell’EMS» (Ente Minerario Siciliano) e «poi obbligato a lasciare l’Italia per non finire in galera o, peggio, al cimitero». In tal modo avrebbe pagato «a caro prezzo il suo ideale di equilibrio tra stato e regione». Per fortuna i «suoi avversari» non poterono ottenere, in aggiunta alla sua liquidazione politica, anche una duratura «damnatio memoriae», perché «quanti siciliani gli volsero allora le spalle dovettero ben presto ricredersi ed ammettere d’essersi sbagliati». Insomma i suoi nemici non sarebbero riusciti a conseguire «l’eliminazione […] del suo ricordo e di ciò che aveva fatto per la Sicilia e per l’Italia costituendo la Sonems», cioè la società di studio per la «realizzazione del metanodotto» Algeria-Sicilia, della cui ideazione Graziano si è mostrato orgoglioso fino alla fine dei suoi giorni.

Anche se gli storici dovrebbero trattare i loro argomenti sine ira et studio, cioè senza simpatie o avversioni preconcette, l’endorsement di Citton a pro di Verzotto merita qualche indulgenza, perché il personaggio può senz’altro considerarsi in buona fede. L’umana simpatia e una discreta erudizione non bastano però a fare di un cultore della disciplina come lui uno storico nel vero senso della parola, anche se è da escludere che abbia prestato la sua opera per denaro o altre utilità materiali. 

L’INFORTUNIO DI UNO «STORICO INSIGNE» – Graziano Verzotto ha dedicato il suo libro di memorie allo storico Pierantonio Gios, sacerdote della diocesi di Padova e già compagno di seminario di suo fratello Luigi. Gios ha ricambiato la gentilezza riconoscendogli le doti di politico «fiero, onesto, a posto con la sua coscienza» (p. 11), oltre che di «fidato collaboratore» di Mattei «fino alla morte» (p. 10). Ha pertanto liquidato come «speculazione politica» (p. 11) l’accusa di contiguità con esponenti della mafia formulata da più parti, facendo discendere le tante «vicissitudini» vissute in terra siciliana dalla sua fedeltà ad una «causa giusta» (p. 11), alla quale avrebbe dedicato l’intera sua esistenza. Ha perfino riconosciuto all’Ente Minerario Siciliano da lui presieduto il merito di aver avviato «nell’isola uno sviluppo industriale che non aveva precedenti», bevendosi la favola di una presidenza lasciata «spontaneamente» per non rimanere vittima di «rivalità, gelosie e inimicizie crescenti» (p. 10). E’ arrivato al punto di denominare «esilio» (p. 10) una latitanza all’estero protrattasi per sedici anni e discesa dall’esigenza di sottrarsi a due mandati di cattura per reati contro la pubblica amministrazione. Eppure il fatto che, nel marzo del 1975, a elargirgli il «consiglio» di «lasciare l’Italia» fossero stati «uomini delle stesse forze dell’ordine» avrebbe dovuto fargli intuire che dietro le sue disavventure  professionali e politiche vi era qualcosa di più grosso e di più losco di un’indebita appropriazione di denaro. Se poi Graziano aveva davvero corso il rischio di finire «in cimitero», anziché in una normale «prigione» (p. 180), il passo falso da lui compiuto doveva essere di natura assai delicata. Se non altro perché in quegli anni gli esponenti dei partiti di governo che venivano sorpresi con le mani nel sacco, cioè a incassare soldi per il partito di appartenenza, erano sistematicamente sottratti alle grinfie dei giudici.

A tutti gli studiosi capita, prima o poi, di prendere qualche granchio. L’infortunio occorso a Pierantonio Gios fa particolarmente specie perché nel 2008 Graziano era ancora in vita e quindi lo studioso non poteva nemmeno accampare l’attenuante del de mortuis nisi bene (‘dei morti si deve parlare soltanto bene’).

L’ELOGIO DELL’IDEALISMO – A pagina 32 delle sue memorie Graziano ha scritto che «per operare nel campo politico è necessario avere […] una buona dose di idealismo e di correttezza verso se stessi e verso gli altri». Ha poi aggiunto che «la politica è un’arte che esige impegno, costanza, serietà», per cui chi vuole farla deve possedere le «idee chiare, sostenute da coraggio e intraprendenza». Si tratta di enunciazioni sacrosante e condivisibili, ma alquanto stonate in bocca ad un soggetto coi suoi trascorsi. Suonano un po’ come certe parole messe da Machiavelli in bocca ad un «principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare» – si trattava di Ferdinando il Cattolico – il quale «non predica mai altro che pace e fede e dell’una e dell’altra è inimicissimo» (e non senza ragioni, visto che se le avesse rispettate gli avrebbero «più volte tolto o la reputazione o lo stato»).

Di sicuro la politica rappresentò per Graziano la passione di un’intera esistenza, ma sul fatto che il suo impegno sia stato alimentato da una forte carica ideale è lecito nutrire dubbi. L’educazione ricevuta in pieno regime mussoliniano non l’aveva certo aiutato ad avere le idee chiare in campo politico, visto che nel giugno del 1940, al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, aveva minacciato di arruolarsi volontario nell’aviazione mussoliniana, se il padre non gli avesse consentito di proseguire gli studi nella scuola magistrale. E neppure la coerenza fu una sua virtù, se nel maggio del 1944 entrò nelle file della resistenza garibaldina a guida comunista, ma ne uscì nel dicembre dello stesso anno per costituire una formazione patriottica a guida democristiana passando attraverso un compromesso politicamente impegnativo con nazisti e fascisti padovani.

Eppure nelle sue memorie Graziano ha presentato come ispirati a idealismo e disinteresse i 28 anni di impegno politico trascorsi in Sicilia («volevo il bene di questa terra, intendevo salvarla dalla miseria in cui molti suoi abitanti si trovavano. Questo ideale fu per me un faro di condotta che andò sempre oltre ai talvolta meschini interessi dei partiti» – p. 176). Non se ne accorsero i suoi avversari politici, ma nemmeno gli amici di partito, tant’è vero che 1975 Amintore Fanfani arrivò a sospenderlo dalla Democrazia Cristiana, provvedimento più unico che raro in quegli anni.   

TRE PRESUNTI MAESTRI Sempre Grazianoha sostenuto di essersi ispirato, in campo politico, all’insegnamento di tre maestri: Gastone Passi, il giovane comunista suo compagno di scuola alle magistrali di Padova, che nel maggio del 1944 lo convinse ad imbracciare le armi contro i nazifascisti; il leader democristiano cittadellese Gavino Sabadin; il grande manager pubblico Enrico Mattei. I fatti dimostrano che fece tesoro degli insegnamenti di un solo soggetto: l’ex sindaco di Cittadella. A Passi voltò le spalle nel dicembre del 1944 quando, su suggerimento di esponenti del clero e della Democrazia Cristiana padovani, scese a patti coi nazifascisti. Enrico Mattei lo tradì a fine ottobre del 1962, quando promosse il viaggio in Sicilia rivelatosi una trappola. Possiamo senz’altro considerare suo maestro in materia di spregiudicatezza etica e di disinvoltura politica Gavino Sabadin, l’esponente democristiano divenuto prefetto di Padova dopo la Liberazione. Nelle sue memorie Graziano gli ha attribuito il merito di avergli fatto «ritrovare ed apprezzare» le sue «radici profondamente cristiane» facendolo avvicinare «gradualmente al Partito Popolare Italiano, poi denominato Democrazia Cristiana» (p. 32). A parte il fatto che il Partito Popolare fondato da don Sturzo era stato sciolto nel novembre del 1926, quando Graziano di anni ne aveva solo tre, e nel «tardo autunno del 1944» i cattolici si stavano raccogliendo, in campo politico, sotto le insegne della Democrazia Cristiana, tutto fa pensare che Verzotto abbia persino superato il maestro Sabadin nell’arte di distorcere o di falsificare la realtà. Ebbero modo di farsene un’idea il giudice di Pavia Vincenzo Calia e i suoi collaboratori che lo ascoltarono come persona informata dei fatti negli anni 1995-1998. Ancora di più i magistrati della terza sezione della Corte d’Appello di Palermo impegnati ad individuare i responsabili del sequestro del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970). Dopo aver confrontato le deposizioni rese loro da Graziano nel 2007 con quelle rilasciate in precedenza ai giudici di Palermo e di Pavia, gli rinfacciarono una serie lunghissima di «contraddizioni, incongruenze, palesi menzogne, ritrattazioni o rettifiche e reiterate manipolazioni delle proprie versioni»[1]. E dopo aver ricostruito gli antefatti della deposizione resa il 13 settembre 1971 al col. Carlo Alberto Dalla Chiesa e al cap. Giuseppe Russo ed averne analizzato criticamente il contenuto, hanno parlato di «una vera e propria sceneggiata, orchestrata tanto per costruire un atto processualmente spendibile», attribuendone la paternità alla «intelligenza criminale dell’ex senatore» e rammaricandosi che «anche il col. Dalla Chiesa si [fosse] prestato» a simile operazione[2]

IL CASO SCOPEL – Nel periodo in cui operò nelle file della resistenza garibaldina (maggio-dicembre 1944) Graziano si mise rapidamente in evidenza per intraprendenza, coraggio e determinazione, tanto da venir posto dai superiori al comando del btg. “Sparviero”, la formazione partigiana operante nel camposampierese. La gente del suo paese ha disapprovato in blocco l’attività cospirativa dei partigiani, a partire dalle azioni suscettibili di provocare rappresaglie a danno della popolazione civile. Eppure le direttive alleate richiedevano di tendere imboscate e di uccidere senza pietà tedeschi e fascisti, in modo da incrementare il senso di insicurezza serpeggiante nelle loro file e di distogliere soldati dal fronte. Gli italiani che scelsero di appoggiare il loro sforzo militare sapevano di dover riscattare le colpe maturate dall’Italia fascista con le guerre di aggressione incautamente dichiarate e ingloriosamente perdute. Non altrettanto la gran parte della popolazione civile che, per il fatto di aver sempre subito le decisioni altrui, non si sentiva responsabile dei crimini e delle atrocità commesse dal fascismo e non riteneva pertanto di dover riscattare colpa alcuna.

Nelle sue memorie Graziano Verzotto ha però rifiutato di intestarsi l’uccisione della maestra Giuseppina Scopel, avvenuta a Borghetto (comune di S. Martino di Lupari) l’11 novembre 1944. Si trattava di una fascista convinta, che aveva cercato di carpire ai propri piccoli allievi informazioni sui nascondigli dei partigiani della zona, in particolare di quelli della “squadra volante”,  tutti individui nascosti in una zona al confine tra i comuni di Loreggia, S. Martino di Lupari e Castelfranco Veneto e attivamente ricercati dai nazifascisti. La maggior parte dei soggetti da me intervistati nella seconda metà degli anni ’90 aveva esplicitamente attribuito quella esecuzione a Graziano. Egli stesso aveva implicitamente accettato di intestarsene la paternità quando ha raccontato di essersi recato, a guerra finita, dal comandante garibaldino Aronne Molinari per farsi rilasciare una dichiarazione attestante il carattere militare dell’azione eseguita su ordini superiori. Conseguentemente anch’io gliene avevo implicitamente attribuito la responsabilità nel volume Resistenza e normalizzazione nell’alta padovana, motivandola con l’esigenza di salvaguardare la segretezza della rete cospirativa che faceva capo a lui. In un secondo momento accettai di modificare quella versione aderendo alla richiesta dell’avv. Luigi Verzotto, fratello di Graziano. La sostituii con una paternità più problematica tenendo conto del fatto che in questo senso  si era espresso anche uno dei testi avvicinati (il signor Bruno Bordin di S. Marco di Camposampiero).

Nelle sue memorie Graziano ha attribuito le accuse che hanno attinto la sua persona in primo luogo ai «fascisti estremisti» (p. 28), suoi «nemici di sempre», e in secondo luogo ai comunisti «gregari», dai quali avrebbero invece preso le distanze i «vertici della Brigata Garibaldi», che avrebbero capito le vere motivazioni del suo «passaggio dal campo garibaldino a quello cattolico» (p. 28). Ha puntato il dito accusatore contro il vice comandante del battaglione “Sparviero” Bruno Ballan, che nel mio libro del 1999 gli aveva esplicitamente attribuito il fatto di sangue. Costui gli avrebbe mosso l’accusa per «risentimento personale nei [suo]i confronti dato che – bisogna a questo punto pur dirlo – era geloso del posto di comandante che ricoprivo, posto a cui egli stesso aveva invano aspirato» (p. 29). Quanto alle reali dinamiche dell’evento, pur ammettendo di aver ricevuto dai suoi superiori l’ordine di sequestrare la maestra, ha sostenuto di non aver «mai saputo con precisione» come fossero «andate poi effettivamente le cose».

A tanti anni di distanza ritengo che la soppressione della maestra Giuseppina Scopel sia stata opera di Graziano Verzotto. Magari l’intento iniziale era semplicemente quello di intimidirla, per cui a fargli perdere il controllo dei nervi potrebbe essere stata un’imprevista reazione dell’insegnante. Va comunque ribadito che, nel contesto di una guerra civile combattuta senza esclusione di colpi, l’esecuzione delle spie costituiva per i partigiani una elementare esigenza di sopravvivenza, visto che la controparte non prevedeva né arresti né processi per quanti di loro venivano catturati con le armi in pugno. Il mito della Resistenza gentile, rispettosa della sacralità della vita umana come di fantasiosi codici cavallereschi, costituisce un’invenzione di certa memorialistica cattolica o badogliana. Spesso è servita a giustificare l’inazione e l’attendismo di chi era disponibile a combattere (con mille riserve) una guerra patriottica contro i tedeschi invasori, ma non una guerra civile contro i fascisti loro alleati. L’esibizione di scrupoli morali convince poco in soggetti o ambienti che avevano applaudito il regime fascista quando aveva invaso l’Abissinia, combattuto a fianco del generale Franco, dichiarato guerra alle democrazie occidentali come la Francia o la Gran Bretagna o invaso Paesi neutrali come la Jugoslavia o la Grecia.  

LA “FINTA RESA” AI NAZIFASCISTI  Anche nelle sue memorie, come in precedenza nel diario storico della terza brigata “D. Chiesa”, Graziano ha parlato di una «finta resa» stipulata «nel dicembre 1944» coi «fascisti di Camposampiero» allo scopo di «salvare la vita» dei suoi uomini (p. 29). In realtà gli accordi li fece in primo luogo coi fascisti di Padova – nella persona di Alfredo Allegro, numero due della nomenclatura fascista cittadina, condannato a morte nel luglio del 1945 per le atrocità commesse nella repressione del movimento partigiano  in Piemonte –  e coi tedeschi di Piazzola sul Brenta. Essi rivestivano una precisa valenza politica, tant’è vero che i fascisti rilasciarono a Graziano un regolare porto d’armi, che ne fece a tutti gli effetti un tutore dell’ordine pubblico sotto le insegne della Repubblica sociale di Mussolini. In più gli consentirono di costituire una nuova formazione patriottica, di ispirazione badogliana, in esplicita competizione col movimento garibaldino e in funzione di un pacifico trapasso dei poteri dal vecchio al nuovo regime. Per esplicita ammissione dello stesso Graziano tale compromesso fu ispirato dall’esponente democristiano cittadellese Gavino Sabadin. Come intermediari dell’operazione egli ha nominativamente indicato il cancelliere vescovile don Mario Zanchin, suo compaesano, e don Ugo Orso, cappellano militare della famigerata banda Carità. Per i dettagli e gli sviluppi della vicenda si veda su web L’accordo raggiunto dal partigiano Graziano Verzotto coi nazifascisti padovani nel dicembre del 1944

Per uno strano scherzo del destino una transazione finalizzata a risparmiare vite umane finì per aggravare il bilancio delle vittime dell’eccidio nazifascista di S. Giustina in Colle del 27 aprile 1945. Furono infatti i fascisti della zona, indispettiti per la violazione dell’accordo da parte degli uomini di Verzotto, a richiedere dapprima l’intervento dei tedeschi del presidio di Castelfranco Veneto e poi a esigere una severa rappresaglia. Con tutta probabilità i due sacerdoti del paese e il maestro Vito Filipetto furono messi a morte perché considerati – a ragione o a torto – mallevadori del compromesso del 20 dicembre 1944.

PRETESTI E DINAMICHE DELL’ECCIDIO DEL 27 APRILE 1945 – Nell’alta padovana l’opinione pubblica ha sempre ritenuto l’Insurrezione del 25 aprile 1945 – evento successivamente eretto a “Festa della Liberazione” dalla Repubblica democratica nata dalla Resistenza – un capriccio dei partigiani e un’inutile provocazione a danno delle truppe tedesche in ritirata e dei fascisti sconfitti. Proteso a confutare prioritariamente la fondatezza storica del detto popolare “ponti d’oro al nemico che fugge”, in molte delle mie pubblicazioni ho battuto il tasto sulla primaria responsabilità nazista e fascista per l’uccisione di civili e patrioti avvenuta a S. Giustina in Colle il 27 aprile 1945, prescindendo dal fatto che il pretesto per la rappresaglia – cioè l’asserita uccisione di due militari tedeschi – costituiva un autentico falso storico. Per una più puntuale ricostruzione delle dinamiche e dei moventi dell’eccidio rimando al saggio su web L’eccidio nazifascista di S. Giustina in Colle (27 aprile 1945) fra  fantasticherie paesane e storia.

Nelle sue memorie Graziano Verzotto ha provato, come suo solito, a ribaltare la frittata, imputando la provocazione ai concorrenti garibaldini. Prendendo spunto dalla testimonianza del partigiano camposampierese Gino Pierobon, da me raccolta nel 1997, ha attribuito l’iniziativa dell’insurrezione al «gruppetto di partigiani comunisti rimasti nel battaglione Sparviero». Costoro avrebbero snobbato i suoi personali inviti alla prudenza, creando i presupposti per l’eccidio:

Purtroppo, tutto fu inutile ed essi agirono di testa loro. Così, pensando di spiazzare tutti, occuparono il municipio del paese e diedero inizio agli scontri col nemico. D’altra parte, i partigiani della mia brigata, che erano la netta maggioranza, mal sopportavano l’occupazione del municipio da parte dei garibaldini. Io stesso, informato dell’accaduto mentre mi trovavo in località Fontane Bianche, in casa del signor Gino Pierobon […] inforcai la bicicletta e mi recai in paese per trovare un compromesso con i garibaldini ed evitare il peggio. Ma oramai era troppo tardi e la miccia era già stata accesa con l’uccisione dei tedeschi e l’occupazione dei loro depositi. I nazifascisti reagirono in forze e, per noi partigiani, in numero nettamente inferiore, fu impossibile organizzare la difesa del paese (p. 30). 

Poiché i citati eventi si riferiscono al 26 aprile 1945, Graziano ha fatto credere che sia stata la «uccisione» di un numero imprecisato di soldati tedeschi, effettuata quel giorno dai rivali garibaldini, a scatenare l’ira dei nemici. Eppure nel diario storico della sua brigata aveva ascritto a merito dei suoi patrioti della III brigata “D. Chiesa” l’asserita uccisione di due soldati tedeschi nel corso dei combattimenti avvenuti il mattino del 27 aprile, quando era lui al comando degli insorti. In realtà un solo militare germanico rimase ucciso a S. Giustina nei giorni dell’insurrezione: il portaordini catturato da Fausto Rosso il 26 aprile mentre da Villa del Conte faceva ritorno al presidio di Villa Custoza. La voce popolare ha attribuito la sua esecuzione a freddo proprio al citato collaboratore di Graziano Verzotto. Costui rimase a sua volta gravemente ferito negli scontri del giorno successivo e decedette poco dopo in canonica non si sa bene se per la gravità delle ferite riportate o per un colpo di grazia sparatogli dai nemici.   

DEMOCRATICI E COMUNISTI Graziano ha giustificato il suo passaggio dalla resistenza garibaldina a quella badogliana con la scarsa affidabilità democratica dei comunisti («avevo maturato nel tempo la convinzione che molti compagni garibaldini non volessero solo cacciare l’invasore tedesco dall’Italia, ma preparare anche  il terreno per la conquista del potere a guerra finita» – pp. 29-30). Rilievi non del tutto infondati i suoi, anche se la storia successiva ha dimostrato che, dopo la svolta di Salerno (aprile 1944), il partito di Togliatti accettò fino in fondo le regole del gioco parlamentare e negli anni bui delle trame eversive si mostrò addirittura il più zelante difensore della Costituzione repubblicana. A ben osservare, però, nel 1943 o nel 1944 erano ben poche le forze politiche nostrane in possesso dei titoli per fare gli esami di democraticità ai comunisti. Nel primo dopoguerra gran parte della borghesia liberale si era schierata dalla parte dei fascisti che garantiva ad essa la difesa di antichi privilegi di classe. Gli stessi vertici della Chiesa cattolica avevano, dopo il 1922, preso progressivamente le distanze dal Partito Popolare di don Sturzo, considerato un ostacolo alla convivenza col fascismo mussoliniano. In un secondo momento non esitarono a legittimare pienamente, coi Patti lateranensi, un regime dispotico e totalitario accogliendo senza proteste le leggi razziali e addirittura benedicendo le avventure militari – le imprese d’Abissinia e di Spagna – che a giudizio degli storici hanno fatto da battistrada alla seconda guerra mondiale. 

Se poi un giovane dell’azione cattolica ambizioso e determinato come Graziano Verzotto aveva dovuto, per operare attivamente nelle Resistenza, arruolarsi in una formazione garibaldina anziché cattolica ciò era dipeso dal fatto che nell’alta padovana gli esponenti democristiani era rimasti per molto tempo alla finestra. E chi, come Gavino Sabadin, spinse per una discesa in campo dei cattolici nella lotta armata, ha scritto nelle sue memorie di averlo fatto non per amore della libertà o della democrazia, ma per convenienza, cioè per accreditare questa parte politica agli occhi degli Alleati inevitabili vincitori in modo da non perdere ancora una volta il treno del potere, com’era accaduto durante il Risorgimento. Ad ogni modo i comunisti non discriminarono affatto i giovani dell’azione cattolica per la loro appartenenza politico-culturale, tant’è vero che dopo la cattura di Timante Ranzato da parte dei fascisti (settembre 1944) affidarono proprio a Graziano Verzotto il comando del battaglione “Sparviero”. Tre mesi dopo sempre i vertici comunisti della brigata “Padova” si opposero alla eliminazione fisica di colui che i più intransigenti di loro consideravano un “traditore” per essere sceso a patti coi nazifascisti. Caso mai a rimetterci alla fine le penne fu proprio Timante Ranzato, il capofila di coloro che avevano sollecitato l’adozione di provvedimenti drastici nei suoi confronti. Dopo aver ripreso il proprio posto al vertice del btg. “Sparviero” egli rimase ucciso in circostanze mai pienamente chiarite a Pieve di Curtarolo il 27 aprile 1945. 

Nemmeno nel clima di contrapposizione ideologica post-bellica i dirigenti comunisti si spinsero fino a disconoscere i meriti acquisiti da Graziano Verzotto nella resistenza dell’alta padovana[3]. Ovviamente di fronte alla sua strafottenza chiesero ed ottennero che a pronunciarsi sulla liceità o meno dell’accordo da lui stipulato coi nazifascisti fosse un gran giurì partigiano, di cui accettarono serenamente il responso di compromesso, anche se quest’ultimo rimase poi senza effetti per il prevalere di logiche politiche. Ciononostante Graziano non ha mancato, nelle sue memorie, di accusare i comunisti di aver tentato più volte di farlo fuori. Alle pp. 177-178 ha scritto, papale papale, che l’ignoto attentatore che la sera del 31 ottobre 1946 «uccise il segretario politico» della DC di S. Giorgio delle Pertiche Gelindo Torresin «volesse colpire non il segretario, ma il sottoscritto in quanto, come già accennato, nel corso della guerra ero passato dal campo garibaldino a quello cattolico, irritando non poco i miei ex compagni». Ha poi aggiunto: «Ebbi anche dei sospetti su un mio ex compagno garibaldino», da identificare probabilmente nel signor Duilio Munaro di S. Giorgio delle Pertiche, oggetto nel dopoguerra di persecuzioni incredibili e quasi sicuramente immeritate. In ogni caso, a suo dire,  «l’episodio […] testimonia che, fin dall’inizio, fui sempre nel mirino dei miei nemici, i quali mi volevano morto a tutti i costi» (p. 37). Si tratta di affermazioni destituite di qualsivoglia fondamento. Stando alla cronaca de «Il Gazzettino» e al rapporto dei carabinieri di Padova, quella sera Graziano non solo non distava «appena un passo» dalla vittima, ma non era ancora nemmeno arrivato nella sede della sezione democristiana. E nel suo rapporto settimanale al ministro degli Interni il prefetto di Padova Manno addebitò il fatto di sangue a «due sconosciuti che, vistisi scoperti mentre si accingevano a commettere un delitto comune, hanno sparato contro alcuni cittadini che li inseguivano, colpendo casualmente il Torresin»[4].

PER GRAZIA RICEVUTAUna volta portatosi a Catania nelle vesti di «dirigente organizzativo della DC» Graziano ha raccontato di aver stabilito «rapporti diretti» con la parlamentare democristiana Maria Nicotra Fiorini  e col  neo ministro degli Interni Mario Scelba, ambedue catanesi. Il secondo l’avrebbe conosciuto in quanto deputato «eletto nella stessa circoscrizione elettorale» della signorina Nicotra, divenuta sua moglie nel 1949. «Di tale conoscenza» si sarebbe avvalso qualche tempo dopo «per perorare la promozione del colonnello Sabatino Cesare Galli (Pizzoni), già comandante del Corpo Volontari della Libertà del Triveneto, a generale della Celere, istituita nel seno stesso della polizia e dotata di mezzi di pronto intervento». Il politico catanese avrebbe proceduto alla costituzione di questo particolare reparto, divenuto celebre per le cariche condotte a bordo di camionette contro i cortei di lavoratori in sciopero, in «risposta ai tentativi intimidatori dei comunisti», che a quell’epoca «avevano attaccato parecchie sezioni democristiane» (p. 37). A richiedergli di «convincere il neoministro degli Interni a nominare generale della Celere il colonnello Galli» sarebbe stato proprio Gavino Sabadin, il politico cittadellese che anni prima aveva pilotato la sua fuoruscita dalle file della resistenza garibaldina per garantire alla Democrazia Cristiana il controllo dell’alta padovana e poi imposto (marzo 1945) il col. Galli a comandante generale dei partigiani veneti. Assieme a costui Graziano si sarebbe recato «al Viminale, dove si trova la sede del Ministero degli Interni» e poco dopo «Galli ricevette la nomina a generale» della Celere, «ripristinando ordine e legalità» (p. 37).

Si dà il caso che il col. Galli, già responsabile della fascistissima PAI (Polizia Africa Italiana), fosse stato scelto da Sabadin a dispetto di un passato politico assai poco raccomandabile, o forse proprio per questo. In quanto ex fascista  rappresentava evidentemente una garanzia contro i rischi di una serie epurazione della vecchia classe dirigente compromessasi con la dittatura, estendendo alla sfera regionale le operazioni trasformistiche avallate da Gavino Sabadin nella sua Cittadella. Il col. Galli era infatti potuto rientrare in Italia da un campo di internamento tedesco grazie ad un giuramento di fedeltà prestato alla Repubblica Sociale di Mussolini. Sappiamo anche che sotto la guida di personaggi come Scelba e Galli la polizia di Stato fu epurata all’incontrario, cioè allontanando alcune migliaia di agenti provenienti dalle file della resistenza comunista e specializzando il reparto Celere nel manganellare i manifestanti di sinistra, cioè operai o braccianti che lottavano per migliore condizioni di lavoro e di vita.

Per altri versi l’appoggio dato da Verzotto alla promozione di Galli su sollecitazione di Sabadin può essere interpretato come la restituzione di un favore ricevuto in precedenza. Era stato quasi sicuramente il politico cittadellese, nelle vesti di prefetto di Padova, a richiedere a Galli di non rendere esecutivo il verdetto pronunciato da un gran giurì partigiano, che sul finire del 1945 aveva proposto di degradare Graziano Verzotto da comandante di brigata a semplice combattente per punirlo dell’accordo stipulato coi nazifascisti nel dicembre 1944, ritenuto nocivo alla causa della resistenza. Infine un suo articolo pubblicato nei primi anni ’70 da una rivista diretta da Edgardo Sogno fa pensare che, negli ultimi anni della sua vita, il gen. Sabatino Galli si sia avvicinato alle posizioni politiche eversive dell’ex comandante della “Franchi” noto per avere tentato di realizzare, nel 1974, un “golpe liberale” finalizzato all’instaurazione di una repubblica presidenziale e alla messa fuori legge del partito comunista.

L’ASSUNZIONE ALL’AGIP Nonostante nel 1944 avesse acquisito il diploma magistrale, Graziano Verzotto non esercitò mai la professione di maestro elementare. Nemmeno terminò gli studi universitari iniziati con l’iscrizione alla Facoltà di lingue presso l’Università di Venezia in una data – il 31 dicembre 1944 – che fa pensare ad una regolarizzazione della sua posizione come parte dell’accordo stipulato dieci giorni prima coi nazifascisti padovani. Il suo primo impiego lo ottenne nel 1950, quando fu assunto dall’Agip, l’agenzia italiana petroli fondata nel 1926 dal fascismo e nel 1945 salvata dalla liquidazione da Enrico Mattei disattendendo le direttive degli Anglo-americani. Non è un mistero che l’ex leader della resistenza cattolica amasse circondarsi di fedelissimi, a partire da quelli iscritti all’APC (‘Associazione Partigiani Cristiani), di cui fu il fondatore e presidente. Graziano ha raccontato di averlo conosciuto nel corso di una delle riunioni tenute dai membri di questo sodalizio in preparazione della secessione dei cattolici dall’ANPI, l’associazione unitaria dei partigiani dominata dalla componente comunista. La scissione maturò nei primi mesi del 1948 e nel settembre dello stesso anno Graziano figurava come componente dell’Esecutivo nazionale dell’APC presieduta da Mattei, associazione di cui divenne in seguito anche vice presidente.

Nella relazione di maggioranza licenziata il 4 febbraio 1946 il presidente della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia sen. Luigi Carraro ha scritto che Graziano «fu assunto all’Agip» «a seguito di interventi della moglie», allora parlamentare democristiana, «e con l’aiuto del partito»[5]. Una lettera in data 10 novembre 1948 dimostra che la sua assunzione all’Agip venne caldeggiata e sostenuta anche dai dirigenti della FIVL (Federazione italiana volontari della libertà). Mattei accettò la loro richiesta nella riunione milanese dell’8 novembre di quell’anno («Mattei si è assunto inoltre l’impegno di garantirti una sistemazione definitiva nel complesso della sua attività industriale e nelle vesti di vice presidente nazionale dell’AGIP»)[6] Nelle sue memorie Graziano ha ribaltato la frittata, facendo credere che sia stato Mattei a chiedere di volersi avvalere della sua preziosa collaborazione:

Eravamo nel 1950. Mia moglie era allora membro della camera dei deputati e le capitava spesso di incontrare Mattei, deputato anche lui, il quale espresse l’intenzione di chiamarmi a Milano come suo collaboratore (p. 48).

Ha poi aggiunto che fu sempre Mattei a inserirlo nella squadra dei suoi più stretti collaboratori:

Fui quindi convocato a Milano. Il primo maggio mi presentai in via Fatebenefratelli, al civico 13, cioè in casa di Mattei. Egli mi spiego brevemente, come suo stile, i progetti che aveva in testa, chiedendomi se accettavo di lavorare con lui. Non speravo di meglio. Il 15 dello stesso mese ero già al lavoro a Milano (p. 49).

Non vi è dubbio che Graziano possedesse i talenti e le qualità umane e relazionali idonee a svolgere con professionalità le mansioni richiestegli e tuttavia la sua assunzione all’Agip rientrava a pieno titolo nella prassi del clientelismo politico. Lo stipendio passatogli da una società a partecipazione statale consentì a lui, come a tanti altri suoi amici di partito, di dedicarsi alla politica attiva senza eccessive preoccupazioni finanziarie. In determinati casi la prassi ricordava quella di papi e vescovi di tempi non lontani, solleciti a concedere a parenti ed amici i più ambiti fra i cosiddetti benefici ecclesiastici Quando si trattava di sinecure non richiedevano nemmeno l’obbligo di prestare ai fedeli i noti servizi religiosi. Mentre nei primi anni l’impiego comportava per Graziano un effettivo carico di lavoro e gli consentì di conoscere Agip ed Eni dall’interno, dovendosi rapportare cogli operatori economici che aspiravano ad approvvigionarsi di metano, l’incarico di responsabile delle pubbliche relazioni per la Sicilia ricoperto tra il 1955 ed il 1967 può essere per molti aspetti paragonato ad una sinecura, che gli consentiva di dedicarsi a tempi pieno alla politica.

COME FAR  POLITICA A SPESE DI PANTALONE – Il primo incarico politico di un certo rilievo Graziano lo ottenne all’inizio del 1955, quando il segretario nazionale Amintore Fanfani lo nominò commissario della federazione democristiana di Siracusa. Con tutta probabilità a segnalarlo per quel posto fu la consorte, ex parlamentare per due legislature e da sempre esponente della corrente del politico aretino. Graziano ha spiegato l’affidamento dell’incarico con la mancata condivisione, da parte nella DC locale, della «svolta politica» impressa da Fanfani al suo partito al congresso di Napoli  del 1953, nel corso del quale era stato incoronato segretario politico. «In Sicilia, ad esempio, Siracusa ed Enna non intesero ragioni, tanto da indurre Fanfani a commissariarle» – ha scritto nelle sue  memorie. Fu così che, «col consenso di Mattei», egli venne inviato «a Siracusa, allo scopo di mettere ordine nel partito» (p. 56), che in quella città risultava particolarmente diviso e rissoso. Ovviamente la carica esigeva la sua presenza in una città ove né Agip né Eni avevano uffici di rappresentanza. Il problema l’avrebbe risolto da Mattei in persona, che «anche questa volta riuscì a salvare capra  e cavoli: non scontentare Fanfani e mantenere la [su]a collaborazione». La soluzione fu trovata nel suo esonero «dai compiti di ispettore dell’Agip» e nell’affidamento dell’incarico di «curare le pubbliche relazioni dell’Eni» in Sicilia (p. 56). Traduzione dal politichese: da quel momento in avanti Graziano ottenne un regolare stipendio da una società a partecipazione statale per curare i rapporti di Agip ed Eni cogli esponenti del suo partito, di cui divenne nel 1959 vicesegretario regionale. In quegli anni fu chiamato a smussare le opposizioni alla costruzione del complesso petrolchimico di Gela, decisa dal governo regionale presieduto da Silvio Milazzo, un cattolico uscito polemicamente dalla DC. In quella ed in altre circostanze Graziano ebbe modo di mettere in evidenza le sue non comuni doti di mediatore. Restò a curare le pubbliche relazioni dell’Eni in Sicilia fino al 1964, quando la nuova dirigenza della società petrolifera di stato succeduta a Mattei lo pose di fronte alla  poco simpatica alternativa di trasferirsi «in un ufficio di pubbliche relazioni a Milano o a Roma»[7] o di rassegnare le dimissioni dall’incarico ricoperto in considerazione anche dei «suoi numerosi incarichi politici extra gruppo»[8]. Quella volta gli venne in soccorso il nuovo uomo forte dell’Eni Eugenio Cefis, che gli offrì un incarico di consulenza all’Anic di Gela. Eppure in seguito Graziano ha sostenuto di non aver «mai partecipato alla famiglia pro Cefis per la semplice ragione che non avev[a] condiviso la politica del neo presidente» dell’Eni. Addirittura, «quando c’era da fare qualcosa, sul piano politico s’intende, che potesse ostacolare la crescita di Cefis [lo] vedeva in prima persona»[9].

Pur dovendo seguire i problemi di un complesso industriale ubicato in una cittadina  della provincia di Caltanissetta, gli fu consentito di svolgere il nuovo lavoro a Palermo, visto che solo risiedendo nel capoluogo regionale avrebbe potuto attendere con profitto alle cure del partito. Stando al presidente della Commissione parlamentare antimafia Luigi Carraro, padovano e democristiano come lui, Graziano sarebbe stato costretto a dare le dimissioni dal prestigioso incarico politico (a fine febbraio 1966) «a seguito di critiche della Cisl che lo accusava di avere determinato l’immobilismo del governo regionale di centro-sinistra, per soddisfare ambizioni ed interessi clientelari nell’attribuzione degli incarichi di sottogoverno»[10].

Ovviamente non fu solo per una questione di lontananza fisica se negli anni in cui ricopriva la carica di segretario regionale della DC e di consulente dell’Anic di Gela non si accorse della penetrazione della famiglia mafiosa dei Di Cristina nell’indotto del complesso petrolchimico. Chiamato in data 26 marzo 1971 a renderne ragione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia spiegò che non aveva avuto «occasione di occupar[si]» della cosa «o perché l’Anic è sempre stata un ambiente chiuso, dove il direttore di stabilimento ha un certo rigore, o perché […]  non chiamato direttamente in causa»[11]. Lasciò la ben remunerata consulenza nel 1967, quando gli fu offerta un incarico ancora più prestigioso: la presidenza dell’Ente minerario siciliano (EMS). Intanto la penetrazione malavitosa nel complesso petrolchimico di Gela era diventata pervasiva e progredì indisturbata fino agli anni ’80, quando lo scontro fra le due fazioni rivali della mafia tradizionale e della “Stidda” provocò qualche centinaio di morti ammazzati.   

CATTOLICO O CLERICALE? –E’ noto che nell’immediato dopoguerra il grosso dei consensi elettorali conseguiti dal partito cattolico veniva intermediato dal clero, che in cambio pretendeva dai dirigenti democristiani deferenza e rispetto per i valori religiosi, oltre che qualche favore temporale. Proveniente da famiglia cattolica, che aveva fatto passare per il seminario quasi tutti i figli maschi e fatto vestire il velo ad alcune delle femmine, Graziano cercò di mantenere sempre buoni rapporti con le gerarchie ecclesiastiche anche in terra siciliana. Nelle sue memorie ha scritto che, una volta arrivato a Siracusa come nuovo commissario della DC, si recò «innanzitutto nell’arcivescovado da monsignor Ettore Baranzini, milanese di origine», vuoi per «rendergli omaggio», vuoi per «pregarlo di fornirgl]i una lista di persone valide, di sicura fede democratica. Il prelato promise che [lo] avrebbe aiutato e così [gl]i segnalò cento nominativi. Fra questi ne scels[e] quaranta, per lo più giovani» (p. 56).

Graziano ha in compenso rivendicato una certa autonomia dall’alto clero nelle vesti di segretario regionale del partito, quando dovette rapportarsi col l’arcivescovo di Palermo mons. Ernesto Ruffini, un conservatore che «individuava i nemici dichiarati della Chiesa» non solo «nel comunismo e nella massoneria» (p. 136), ma anche nei socialisti e perfino nei cattolici dissidenti, tanto da definire gli amici di Silvio Milazzo «eretici moderni» (p. 102). Il prelato è passato alla storia per aver scritto, nella corrispondenza inviata in Vaticano, che la mafia costituiva un’invenzione dei comunisti per screditare i democristiani.

Secondo Graziano il cardinale Ruffini non avrebbe affatto «gradito» la sua nomina a segretario politico regionale perché, «pur provenendo da famiglia profondamente cristiana», egli costituiva «pur sempre uomo di Mattei» (136), da lui profondamente avversato. Inoltre da vice segretario regionale della DC aveva dato il suo benestare all’ingresso dei socialisti di Nenni nel governo regionale siciliano. Lo aveva fatto semplicemente perché senza il loro appoggio non sarebbe stato possibile costituire una maggioranza a Palazzo dei Normanni. A causa di questa ostilità evitò di «andarlo a trovare» fino a quando «il cardinale non gli [fece] sapere che avrebbe gradito» una sua visita, nel corso della quale si rivelò «molto cordiale». In occasione di un secondo incontro il cardinale gli «ribadì d’essere sempre stato contrario a qualsiasi apertura della DC verso sinistra». Con molta diplomazia egli gli avrebbe allora ricordato l’autonomia della politica dalla religione, pur rassicurandolo del fatto che, sotto la sua guida, la DC siciliana  non avrebbe mai «tollerato critiche ingiustificate alla Chiesa e ai suoi rappresentanti» (p.137).

LO SGAMBETTO AL GOVERNO MILAZZO  – Fra le imprese politiche rivendicate con maggior orgoglio negli anni in cui rimase al vertice della DC siciliana (1959-1966) Graziano ha indicato la caduta del governo regionale presieduto dal cattolico dissidente Silvio Milazzo. Uscito polemicamente dalla DC costui aveva fondato un proprio partitino denominato Unione siciliana cristiano-sociale e coi voti dei socialisti e di alcuni indipendenti aveva costituito a Palermo una maggioranza che si reggeva con l’appoggio esterno dei consiglieri comunisti e confinava i democristiani all’opposizione. Nelle vesti rispettivamente di segretario regionale e di vice segretario di un partito inopinatamente privato delle poltrone, Giuseppe D’Angelo e Graziano Verzotto si erano allora messi a studiare «la strategia migliore per mandare a casa Milazzo e la sua giunta» (p. 98). La battaglia fu combattuta e vinta non sul campo delle idee e dei programmi, ma a base di giochetti di palazzo e sgambetti di bassa cucina politica. Graziano ha raccontato che lui e D’Angelo riuscirono ad avvicinare «il vicepresidente della regione barone Benedetto Majorana della Nicchiara» convincendolo «a dimettersi in cambio della promessa della presidenza» dell’Assemblea regionale siciliana (p. 102). Quest’ultimo, a sua volta, convinse ad uscire dalla maggioranza altri tre consiglieri regionali suoi amici. Infine, per «spezzare» il «filo diretto» che legava i comunisti – i quali in realtà non facevano parte della maggioranza, limitandosi a garantirne l’appoggio esterno – agli amici di Silvio Milazzo D’Angelo e Verzotto, dopo aver studiato «l’operazione nei dettagli», prepararono «l’esca nella persona di Carmelo Santalco» (p. 102), un deputato democristiano originario di Messina. Sapendo che il suo voto sarebbe stato decisivo per mantenere in vita la giunta Milazzo, Santalco avvicinò il deputato milazziano Ludovico Corrao manifestandogli la propria disponibilità a lasciare la DC e a dare  il suo voto alla maggioranza in cambio di una certa somma di denaro e di un assessorato per sé e per un suo amico. Corrao coinvolse nell’operazione corruttiva un consigliere comunista, ma alla prima riunione dell’Assemblea regionale siciliana Carmelo Santalco denunciò pubblicamente l’operazione trasformistica e corruttiva di cui era stato artefice e complice.  Silvio Milazzo fu costretto a dare le dimissioni e il governo dell’isola ritornò nelle mani di una maggioranza «composta da democristiani, missini e monarchici» e presieduta dal transfuga Benedetto Maiorana (p. 103). Graziano si è attribuito il merito di questa vittoria riportata da una Democrazia cristiana spostata decisamente a destra, ma per giustificare il voto determinante dei neofascisti ha avvertito il bisogno di precisare che «anche in ambito nazionale si sarebbe di lì a poco verificata la stessa situazione col governo di Fernando Tambroni» (p.103). Ha solo dimenticato di aggiungere che, tenuto in piedi dai voti fascisti, Tambroni fu costretto a dimettersi in seguito a violente manifestazioni popolari, che a Genova e a Reggio Emilio videro la Celere di Scelba sparare sui manifestanti di sinistra.  Sappiamo che la maggioranza portata da Verzotto e D’Angelo al governo della regione Sicilia era la stessa che Pio XII avrebbe voluto al vertice del comune di Roma nei primi anni ’50, in ciò decisamente contrastato dal presidente del consiglio Alcide De Gasperi, che da allora in poi non venne più ricevuto in Vaticano.

Nelle sue memorie Graziano ha ricordato che fra i tanti che si complimentarono con lui per aver estromesso «dal governo dell’isola Silvio Milazzo e i suoi sostenitori comunisti» ci fu il boss mafioso Salvatore Lucania, più noto come Lucky Luciano. «Il colloquio» con costui si svolse all’hotel palermitano delle Palme e «terminò con l’abituale offerta d’aiuto da parte sua, che naturalmente» egli declinò (p. 97). In effetti Graziano non necessitava della benevolenza di un mafioso influente nella città di Napoli, perché già da qualche anno poteva contare sull’appoggio di noti esponenti di Cosa Nostra siciliana. 

MAI CONOSCIUTO BOSS MAFIOSI? Accusato di aver frequentato in Sicilia mafiosi di rango, nelle sue memorie Graziano ha negato categoricamente ogni collusione con esponenti di Cosa Nostra: «Tanto per essere chiari, io non conobbi mai i capi mafia che mi si attribuiscono» ha scritto a p. 92. Ed ancora: «Per ulteriore chiarezza, preciso infine che non fui mai inquisito o indagato per problemi di mafia» (p. 92). Ovviamente non ha potuto negare di aver partecipato, in qualità di testimone dello sposo, al matrimonio del boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, ma ha liquidato la cosa come semplice «incidente», spiegabile col fatto che a quel tempo non aveva ancora «un’idea precisa di cosa fosse la mafia» (p. 90).  Avrebbe accettato la richiesta per ingenuità e per «non essere scortese nei confronti dell’on. Calogero Volpe di Caltanissetta, [su]o sostenitore alla segreteria regionale» del partito. Con questa affermazione Graziano si è però dato la zappa sui piedi, perché il matrimonio di Peppe Di Cristina ebbe luogo il 2 settembre 1960, mentre la sua elezione alla segreteria regionale DC avvenne nella primavera del 1962. Non è dunque credibile che abbia ricambiato nel 1960 un favore ricevuto nel 1962. Poiché, invece, in altra sede ha confermato di essere diventato segretario regionale con l’appoggio della federazione democristiana di Caltanissetta, che aveva come segretario l’on. Calogero Volpe e come vicesegretario Antonio Di Cristina, fratello di Giuseppe e sindaco di Riesi, il favore ricevuto potrebbe averlo ricambiato nell’autunno del 1962 organizzando, per conto dei nemici di Mattei, il viaggio-trappola in Sicilia del 26-27 ottobre 1962. Per quanto riguarda il lungo e documentato sodalizio con Giuseppe Di Cristina, ha ammesso di aver conosciuto il personaggio «durante la campagna elettorale del 1958», essendo costui stato una delle «persone che avevano appoggiato la [su]a candidatura, peraltro non riuscita» pp. (89-90). In realtà le centinaia di preferenze ricevute a Riesi gli erano state procurate proprio dalla famiglia Di Cristina, che deteneva una grande influenza nella cittadina, e non dal «dottor Musumeci, capo dell’Ufficio Imposte di Mazzarino» (p. 89). E lungi dall’essere «un occasionale rapporto», il sodalizio con Giuseppe Di Cristina si intensificò negli anni successivi e proseguì anche dopo il 1975, nei primi anni della sua latitanza all’estero. Il collaboratore di giustizia Franco di Carlo ha raccontato di aver personalmente accompagnato Giuseppe Di Cristina e il boss palermitano Stefano Bontate a Parigi perché il primo «doveva parlare con il suo compare», che in quella città si trovava «sempre in compagnia di persone molto importanti che provenivano dall’Italia». A suo giudizio, nella capitale francese «il senatore Verzotto si comportava come un capomafia all’estero o al confino che, non potendo rientrare nel proprio Paese, riceveva sul posto i propri amici e i propri affiliati»[12]. Nel corso di uno di questi viaggi Giuseppe Di Cristina si sarebbe vantato di aver fatto fuori i tre mafiosi da lui ritenuti complici di Berardino Andreola nell’aggressione siracusana a Verzotto del 1 febbraio 1975[13].   

Nel 1968 suscitò grande scandalo sui giornali l’assunzione di Giuseppe Di Cristina alla Sochimisi, una società del gruppo EMS di cui Graziano era presidente. Anche se la firma in calce al contratto fu posta dall’esponente repubblicano Aristide Gunnella – subentrato a Verzotto nell’incetta di voti e di preferenze nella zona di Riesi – l’assunzione del boss mafioso condannato quattro anni prima al soggiorno obbligato dalla Corte d’Appello di Catania è stata generalmente attribuita al politico padovano. Di fronte alle proteste dei comunisti anche il segretario regionale pro tempore della DC siciliana ammise quella volta che l’assunzione del mafioso era stata «conseguenza dell’interessamento del senatore Verzotto»[14]. Tale versione è stata confermata dall’on. Gunnella di fronte alla Commissione parlamentare antimafia (audizione del 26 marzo 1971)[15] e davanti ai giudici di Palermo (udienza del 26 maggio 2008), quando ribadì di aver telefonato a Verzotto «prima di procedere all’assunzione» del Di Cristina, «ottenendone il pieno assenso»[16].

L’altro testimone alle nozze di Giuseppe Di Cristina si chiamava Pippo (Giuseppe) Calderone e divenne il boss di Catania nei primi anni ’70. Eppure nella deposizione dell’ottobre 1971 davanti ai giudici di Palermo Graziano affermò di non averlo mai conosciuto, storpiando bellamente il suo cognome in «Calabrone»[17]. La frequentazione di questo boss e del suo braccio destro Francesco Mangion è stata confermata dalla teste Italia Amato, compagna del Mangion, e da Nino (Antonino) Calderone, fratello di Pippo, convinto nel 1984 a collaborare con la giustizia dal giudice Giovanni Falcone. Nino Calderone ha illustrato al presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante i vantaggi che derivavano ad un boss mafioso dal fatto di poter esibire l’amicizia di un politico influente, ricordando anche come Graziano Verzotto fosse solito farsi beffe  dei richiami dei vertici nazionali del suo partito dicendo che «se voi mi volete ricattare su questo, io vi ricatto dicendo che quello è pederasta», che «Rumor è così…» facendosi delle grandi «risate»[18]. Nelle sue memorie Graziano ha riconosciuto di aver avuto a che fare anche con Giuseppe Genco Russo e Lucky Luciano. Ovviamente ha scritto di non aver aiutato «mai Genco Russo; anzi, obbedendo ad una direttiva del partito», lo avrebbe escluso «dalla lista dei candidati DC di Mussomeli alle elezioni  amministrative» del 1960 (p. 92). Le smentite sono venute anche da soggetti estranei all’universo mafioso. In una deposizione del 1996 l’ing. Mario Campelli ha ricordato che al tempo della costruzione del villaggio Eni di Macchitella, nei pressi di Gela, Graziano Verzotto gli aveva suggerito di «incontrare Genco Russo, perché ciò avrebbe agevolato la società» incaricata di effettuare i lavori «facilitando i rapporti con la realtà locale»[19]. Nella deposizione del 12 febbraio 2011 anche Raffaele Girotti – ex presidente dell’Eni ed ex senatore democristiano – gli ha attribuito «contatti con la mafia» in quanto glielo «disse lui stesso»[20].

Ovviamente nelle sue memorie Graziano non ha nascosto le sue antipatie per la Commissione parlamentare antimafia, cioè per lo «organismo» che egli stesso avrebbe «contribuito a creare», in quanto trasformatasi in uno «strumento di speculazioni politiche» (p. 91) a danno suo e del suo partito. Si dà però il caso che ai suoi tempi l’organismo fosse sempre presieduto da un parlamentare democristiano e che i rappresentati dei partiti di governo costituissero sempre la maggioranza dei commissari. Graziano ha pure scritto che il suo compare Giuseppe Di Cristina «fu trovato morto a Palermo» nel 1978 (p. 91), mentre è noto che non si spense di vecchiaia nel suo letto, ma fu ucciso a colpi d’arma da fuoco dai sicari di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Nelle tasche gli furono trovati assegni per tre miliardi di lire, che lo collegavano alla malavita napoletana e romana. L’anno prima analogo destino era stato riservato a Giuseppe Calderone e negli anni successivi la stessa sorte venne inflitta ad Antonio ed Angelo Di Cristina, fratelli di Giuseppe. Invece Stefano Bontate riuscì a sopravvivere fino al 1982, ma la sua uccisione da parte dei killer di Totò Riina diede ufficialmente inizio a quella che è passata alla storia come la seconda guerra di mafia, che ha lasciato sul campo un migliaio di cadaveri.

IL DELITTO MATTEI –  Nelle sue memorie Graziano ha presentato la vicenda della morte di Mattei (27 ottobre 1962) come una «matassa […] davvero ingarbugliata», sempre «ferma a livello di ipotesi, ciascuna non suffragata da prove tali da escludere le altre e da fugare ogni dubbio» (p. 85). Più o meno l’interpretazione ammannita allo scrivente all’inizio del 1995, quando gli chiesi cosa pensasse delle due teorie – incidente aviatorio o complotto politico – allora in campo. A suo giudizio «anche il sabotaggio dell’aereo, dato sempre per scontato, non fu mai scientificamente accertato, malgrado le ricerche di più organi competenti e non, in particolare l’ultima, condotta dalla procura di Pavia, che sul caso lavorò con impegno per anni» (p. 81). Peccato che il giudice pavese Vincenzo Calia, che condusse la seconda inchiesta sulla sciagura aerea di Bascapé, al termine della stessa si sia convinto che il piccolo jet di Mattei sia precipitato a causa di un sabotaggio, cioè per la deflagrazione di una bomba di limitata potenza, tanto da riproporre questa tesi in un libro uscito nel 2017 e fornito di un sottotitolo piuttosto eloquente: Le prove dell’omicidio del presidente dell’Eni dopo bugie, depistaggi e manipolazioni della verità.

Sempre secondo Graziano, Tommaso Buscetta si sarebbe limitato a puntare «il dito accusatorio sulle Sette Sorelle» e su «Giuseppe Di Cristina, boss di Riesi» (p. 82). Viceversa nella deposizione rilasciata nel 1994 al giudice Giancarlo Caselli il più celebre dei collaboratori di giustizia aveva detto che «il contatto tra quel gruppo di Cosa Nostra» che si era impegnato a far fuori «il Mattei, era stato stabilito da Graziano Verzotto», personaggio «molto legato a Di Cristina Giuseppe», di cui era stato compare d’anello. Proprio quest’ultimo si sarebbe assunto il compito di «organizzare materialmente l’attentato»[21] contro il presidente dell’Eni, unitamente a Stefano Bontate, Pippo Calderone ed altri mafiosi. Ovviamente Graziano se l’è presa con Buscetta e con tutti i «cosiddetti pentiti, letteralmente protetti e finanziati dallo Stato su indicazione della DIA» (Direzione Investigativa Antimafia). Ha conseguentemente negato ogni attendibilità alle loro rivelazioni, «rilasciate in tempi e modi forse prestabiliti» (p. 82), definendo nello specifico la «versione di Buscetta piena di contraddizioni, inesattezze e vere bugie» (p. 82), oltre che di «assurdità sulle quali non vale neppure la pena di soffermarsi» (p. 83).

Nel corso della prima inchiesta giudiziaria (1962-1966) sulla morte del geniale manager pubblico, Graziano Verzotto non era stato nemmeno convocato dai giudici, che non avevano mostrato alcuna curiosità per il fatto che qualcuno avesse, a soli otto giorni di distanza dal precedente, organizzato un secondo viaggio in Sicilia di un manager notoriamente oberato da impegni nazionali ed internazionali. A chiamarlo  in causa per quella vicenda furono, una trentina di anni dopo, diversi dissociati da Cosa Nostra. Furono via via le rivelazioni di Gaetano Jannì (1993), di Tommaso Buscetta (1994), di Salvatore Riggio (1996), di Italia Amato (2001), di Francesco Pattarino, di Antonino La Perna ad attirare su di lui l’attenzione dei magistrati di Pavia, che fra il 1994 ed il 2004 condussero la seconda inchiesta giudiziaria sulla morte dei Mattei, e poi di quelli di Palermo indaganti sul caso De Mauro.  

Le mie convinzioni sulla parte giocata da Verzotto nel delitto Mattei le ho organicamente esposte nel volume Il delitto Mattei. Complicità italiane in un’operazione segreta della Guerra Fredda (2019), versione più elaborata di una pubblicazione uscita  nel 2017 con un diverso sottotitolo (Il delitto Mattei. Un assassinio politico della Guerra Fredda camuffato da incidente aviatorio). A quelle ricerche rimando per una puntuale disanima del ruolo giocato da Verzotto nel complotto sovranazionale costato la vita al grande manager pubblico, colpevole di essersi posto in rotta di collisione con i governanti statunitense e francese più ancora che con le Sette sorelle del cartello petrolifero internazionale e l’organizzazione dei nazionalisti d’Oltralpe (OAS) contraria all’indipendenza algerina. In questa sede mi limito ad accennare ai tanti cambiamenti di versione effettuati da Graziano nelle sue deposizioni giudiziarie. Essi non costituiscono di per sé una prova decisiva di colpevolezza, ma è evidente che se non avesse avuto nulla di riprovevole da nascondere agli inquirenti non si sarebbe profuso in tante reticenze e contraddizioni. Nelle memorie non si è pronunciato sull’identità del promotore di quella sospetta trasferta, mentre sulla motivazione di quest’ultima ha sposato, sia pure sfumandola, la versione da lui bollata come falsa solo una decina di anni prima in un contesto di ufficialità, cioè nel corso di una deposizione giudiziaria. Pertanto ha fatto scrivere a Citton che il 27 ottobre 1962 Mattei avrebbe visitato Gagliano Castelferrato «per rassicurare gli animi dei cittadini del piccolo centro ennese, come precedentemente promesso» (p. 78), dando per scontato che fossero ancora in agitazione per la mancata realizzazione del promesso stabilimento, scenario già da lui bollato come falso.

UNA CATERVA DI MENZOGNE Enrico Mattei si era precedentemente recato in Sicilia il 19 ottobre 1962 per risolvere una piccola grana politica: quella del malcontento della popolazione di Gagliano Castelferrato, paesotto in provincia di Enna, che chiedeva una compensazione in termini occupazionali per lo sfruttamento, da parte dell’Eni, di un giacimento di metano scoperto nel sottosuolo comunale. Risolse la questione promettendo lo costruzione di una fabbrica tessile in grado di occupare 400 disoccupati del paese, interessato da una forte diaspora migratoria verso la Germania. Visto che la successiva trasferta del 26-27 ottobre si rivelò fatale per il manager pubblico, perché i suoi nemici poterono collocare sul suo aereo in sosta all’aeroporto di Catania una bomba collegata al meccanismo di estromissione del carrello – e quindi destinata ad esplodere nella fase di avvicinamento all’aeroporto di Linate – la paternità di quello strano secondo viaggio e le motivazione dello stesso acquistano un valore cruciale per appurare le complicità italiane nel complotto ordito in sede sovranazionale. Sulla carta i sospettabili di quella iniziativa erano in primo luogo Giuseppe D’Angelo, presidente della regione Sicilia e massimo interlocutore istituzionale di Mattei e dell’Eni nell’isola, e in secondo luogo Graziano Verzotto. In qualità di responsabile delle pubbliche relazioni dell’Eni in Sicilia egli teneva i contatti fra la società petrolifera di Stato, interessata a sfruttare il metano di Gagliano, il petrolio di Ragusa e a condurre a termine la costruzione dello stabilimento petrolchimico di Gela, e le autorità politico-amministrative dell’isola.

Ad escludere una partecipazione consapevole dell’on. D’Angelo al complotto sta la sua accettazione dell’invito rivoltogli da Mattei di tenergli compagnia durante il volo di rientro a Linate. Diede forfait all’ultimo momento, tanto che figurava già nella lista dei passeggeri imbarcati, ragion per cui per qualche ora si cercò il suo cadavere fra i rottami dell’aereo. «Pensò bene di non salire sull’aereo con Mattei»  perché qualcuno gli fornì «la notizia dell’imminente attentato» ha sostenuto l’ex giudice Ugo Saito nel 1998[22]. Per altri magistrati di Palermo questo «qualcuno» andava quasi sicuramente identificato in Graziano Verzotto.  Fu comunque D’Angelo a dare la prima versione ufficiale di quello strano viaggio nel corso della pubblica commemorazione di Mattei tenuta all’ARS (Assemblea regionale siciliana) il 29 ottobre 1962. Ne attribuì l’iniziativa al defunto, ovviamente impossibilitato ad obiettare, che avrebbe compiuto quella trasferta per mostrare all’opinione pubblica siciliana i «passi  avanti» compiuti dal petrolchimico di Gela «da  un  anno  a questa parte», cioè «dall’ultima visita del novembre scorso ad oggi»[23]. Tale spiegazione metteva però in croce Verzotto, che la mattina del 26 ottobre se n’era rimasto a Palermo ed aveva, quindi, mancato al dovere di presentarsi ad accogliere sulla pista di atterraggio di Gela il presidente della società che gli passava lo stipendio. Per questo il 26 maggio 1971, quando venne interrogato dai magistrati di Palermo nell’ambito di una successiva inchiesta giudiziaria (quella sul rapimento del giornalista Mauro De Mauro, messo da una parte degli inquirenti in relazione con ipotetici scoop effettuati sulla fine di Enrico Mattei), Graziano si dichiarò del tutto estraneo all’organizzazione di quella trasferta, della quale sarebbe stato informato da altri all’ultimo momento («nell’ottobre del 1962 seppi della visita di Mattei in Sicilia»). A suo giudizio quel viaggio era stato «richiesto e programmato dall’on. D’Angelo» e non certo per mostrare i progressi nella costruzione del petrolchimico di Gela, bensì per «tranquillizzare la popolazione» di Gagliano, «che manifestava insofferenza per la mancata realizzazione di impianti industriali». Aggiunse inoltre che Mattei era «riluttante a venir in Sicilia anche perché v’era stato una quindicina di giorni prima» (in realtà solo otto). Così, quando a sua volta fu interrogato dagli stessi giudici, D’Angelo dovette aggiornare la propria versione, addebitando il viaggio ad un accordo fra «presidenza della regione», lo «stesso Mattei» e «una delegazione della cittadina ennese», «in fermento per la mancata realizzazione dello stabilimento programmato», lasciando sempre fuori Verzotto. Difficile credere che l’impegno occupazionale assunto da Mattei potesse essere onorato in otto giorni, ma Verzotto si guardò bene dal contraddirlo nei 25 anni successivi, pur sapendo benissimo che la popolazione di Gagliano aveva dismesso lo stato di agitazione ed anzi si apprestava a riservare al presidente dell’Eni un’accoglienza trionfale, avendo avuto modo di verificarne di persona l’entusiasmo per Mattei quando aveva visitato il paese  in compagnia del questore di Enna Ferdinando Li Donni in preparazione dell’evento.

Graziano si mostrò altrettanto sfuggente e contraddittorio nelle deposizioni rilasciate ai giudici di Pavia fra il 1995 e 1998. In quella dell’8 novembre 1995, ad esempio, avvertì ancora una volta l’esigenza di giustificare la sua assenza dalla pista di Gela sostenendo di non aver saputo «assolutamente che Enrico Mattei, contestualmente alla visita all’ennese, avesse programmato anche una visita agli stabilimenti di Gela». Per questa ragione se n’era rimasto «nel [su] ufficio a Palermo», aspettando che gli «venissero comunicati il luogo e l’ora del suo arrivo» in Sicilia[24]. Escluse inoltre che Mattei «avesse in programma di ritornare in Sicilia a brevissima scadenza» e, pur ammettendo «di aver potuto telefonare al presidente dell’Eni, nel suo ufficio, per rappresentargli» la richiesta del presidente D’Angelo di una sua nuova trasferta siciliana per «tranquillizzare la gente» di Gagliano, si guardò bene dall’evidenziare l’infondatezza di tale motivazione[25]. La piena paternità dell’ultima, fatale trasferta di Mattei se l’assunse apertamente solo nella deposizione pavese del 4 settembre 1998  («quanto all’ultimo viaggio di Mattei in Sicilia, posso dire di aver telefonato io stesso ad Enrico Mattei, convincendolo della opportunità di scendere in Sicilia, dietro vive pressioni dell’on. Giuseppe D’Angelo, all’epoca presidente della Regione Sicilia e deputato della zona di Gagliano Castelferrato»), assieme all’aperta sconfessione del movente lasciato credere fondato per un quarto e più di secolo («escludo invece che Mattei sia venuto in Sicilia per tranquillizzare la popolazione di Gagliano. Tale popolazione non era infatti in rivolta ma, tutt’al più, nutriva dei dubbi che l’accordo tra ENI e Regione – intervenuto la settimana precedente a Palermo –  per la realizzazione di uno stabilimento industriale a  Gagliano, sarebbe stato effettivamente rispettato. La popolazione di Gagliano temeva, in sostanza, che l’accordo avesse avuto solo motivazioni politico-elettorali»)[26]. Anche la nuova motivazione risultava però poco credibile, perché la gente di Gagliano non poteva aver convertito il suo entusiasmo in diffidenza nell’arco di tre o quattro giorni ed in ogni caso le rassicurazioni non le potevano venire dalle stesse persone che avevano promesso 400 posti di lavoro pochi giorni prima a Palermo. Nel 1998 il giudice Calia è parso accontentarsi di questa debole spiegazione.

Altro sconcerto lo ha suscitato lo spostamento dell’aereo di Mattei da Gela a Catania, località altrettanto lontana dal paese (Gagliano) che Mattei aveva in progetto di visitare l’indomani. Dai collaboratori di giustizia sappiamo che lo scalo nella città etnea si era reso necessario dopo l’intervenuto cambiamento di programma degli attentatori, che avevano rinunciato a tendere a Mattei la classica imboscata nei pressi di Gela a base di kalashnikov e di bombe, optando per un sofisticato sabotaggio del suo velivolo mentre era in sosta allo scalo di Catania, in modo che la sua caduta potesse essere addebitata ad un inconveniente tecnico o ad un errore umano. Graziano ha sempre attribuito a Mattei la decisione di spostare l’aereo nella città etnea e l’ha motivata con ragioni di sicurezza. In effetti qualche giorno prima ignoti malviventi – forse scagnozzi del boss Giuseppe Di Cristina – avevano sparato contro i lampioni che illuminavano la pista di Gela[27]. Guarda caso, però, l’unico che la sera del 26 ottobre usufruì del volo Gela-Catania fu Verzotto, che ha preteso di essere atteso l’indomani da un indilazionabile impegno politico a Siracusa. Avrebbe potuto percorrere il medesimo tratto di strada in auto, viaggiando durante la notte, ma è difficile credere che sia stata una pura coincidenza se ha potuto avvalersi del passaggio aereo di Bertuzzi e che questo asserito impegno politico avesse la priorità rispetto a quello che gli derivava dal fatto di ricoprire un posto di dirigente sul libro paga dell’Eni. Inoltre l’adempimento preso a pretesto per non accompagnare l’indomani Mattei a Gagliano e poi nel volo di rientro a Linate – «come sarebbe stato lecito attendersi dato il suo ruolo di capo dell’ufficio pubbliche relazioni» dell’Eni in Sicilia[28] e alla luce del fatto che due ore di colloquio con l’uomo più potente d’Italia erano allora considerate un privilegio per chiunque – sarebbe consistito, stando all’intervista concessa a «L’Europeo» del 19 novembre 1970, in «una riunione a Gela» di «consiglieri DC», diventata a partire dal 1995 una riunione di segretari comunali in vista di elezioni amministrative suppletive, che i giudici hanno accertato non essersi tenute in nessuna località della provincia di Siracusa nell’autunno del 1962[29]. Pertanto nel 2011 i giudici della Corte d’Assise di Palermo hanno considerato «inconsistenti e incongrue», oltre che «oggettivamente false», le mutevoli giustificazioni addotte da Verzotto «per rifiutarsi di accompagnare Mattei a Milano», addebitando la usa indisponibilità a «mettere piede a bordo di quell’aereo» alla consapevolezza che esso non sarebbe mai arrivato a destinazione[30].

Piena di contraddizioni si è rivelata anche la ricostruzione del suo operato nella serata del 26 ottobre e nella mattinata del 27 ottobre. Se nella deposizione dell’8 novembre 1995 raccontò di essere rincasato subito dopo la cena col pilota Bertuzzi ed escluse di averlo accompagnato «il 27 mattina dall’albergo all’aeroporto», nonostante così risultasse «dagli appunti di Mauro De Mauro»[31], nella deposizione del 16 febbraio 1996 ammise «di avere effettivamente accompagnato Bertuzzi […] all’aeroporto di Fontanarossa il mattino del 27 ottobre»[32]. Sulla base delle testimonianze di Umberto Angelo Barberi e di Paolo Iocolano, nonché «dei progressivi aggiustamenti della  sua versione da parte» di Verzotto,  i giudici di Palermo si sono convinti che «la presenza» del futuro senatore «in compagnia di Bertuzzi si sia protratta ben più lungo di quanto abbia sempre fatto credere», postulando che sia «rimasto insieme a Bertuzzi in attesa che arrivasse Mattei» per l’intera giornata[33]. Pertanto tutto lascia credere che il giorno 27 ottobre egli non solo non si sia recato a Siracusa, ma non si sia mai mosso da Catania, per tallonare da vicino il pilota Bertuzzi e acquisire da lui l’orario aggiornato di partenza del suo aereo per Linate, senza il quale si correva il rischio che la bomba esplodesse durante un volo all’interno della Sicilia e senza Mattei a  bordo. 

IL DELITTO DE MAURO – Nel 1996 il politologo Giorgio Galli ha scritto, con cognizione di causa, che dopo il 1962 «mezza Italia ha ricattato l’altra metà con ciò che sapeva della morte di Mattei»[34]. Tra questi vi fu sicuramente  Graziano Verzotto, che nel 1970 pensò di utilizzare determinati retroscena della sciagura di Bascapé per indurre il nuovo presidente dell’Eni Eugenio Cefis e il suo protettore politico Amintore Fanfani – che evidentemente riteneva ricattabili perché a conoscenza del complotto contro Mattei, se non addirittura in qualche maniera implicati – a recedere dall’opposizione al metanodotto Algeria-Sicilia, progettato dal suo Ente minerario siciliano in collaborazione con la società petrolifera di stato algerina. Intendeva realizzare tale infrastruttura per ragioni nobili (fornire energia e prezzi competitivi alle progettate industrie siciliane) e meno nobili (assegnare appalti a imprese amiche e procurarsi fondi neri con cui finanziare le sue attività politiche). Cooptò nell’operazione ricattatoria a mezzo stampa l’amico Mauro De Mauro, facendo figurare a carico dell’Ente minerario da lui presieduto una sua pseudo inchiesta sociologica sugli effetti dell’industrializzazione nell’area di Termini Imerese. L’operazione fu concordata a marzo o ad aprile del 1970, cioè diversi mesi prima che il giornalista ricevesse dal regista napoletano Francesco Rosi l’incarico (21 luglio 1970) di stendere una bozza di sceneggiatura sull’ultimo, fatale viaggio di Enrico Mattei in Sicilia (26-27 ottobre 1962). A questo punto il film avrebbe potuto trasformarsi in una formidabile cassa di risonanza di eventuali scoop sui retroscena di Bascapé. La vicenda conobbe però sviluppi imprevisti, perché tramite una propria inchiesta giornalistica Mauro De Mauro scoprì cose che non doveva scoprire sulla fine di Mattei e molto probabilmente tentò anche di impostare una propria operazione ricattatoria ai danni di Verzotto, rendendo necessario l’intervento degli scagnozzi dei boss mafiosi – Stefano Bontate, Peppe Di Cristina, Pippo Calderone ed altri – già implicati nel delitto Mattei. Così il giornalista fu rapito (16 settembre 1970), sottoposto alla famigerata strinciuta (‘tortura’) e soppresso. Le indagini della polizia si indirizzarono subito sulla “pista Mattei” e presero di mira Graziano Verzotto e l’amico Vito Guarrasi, ma l’Arma dei carabinieri di Palermo, guidata dal col. Carlo Alberto Dalla Chiesa e dal cap. Giuseppe Russo, vi contrappose fin dal primo momento la falsa “pista droga”, incanalando le indagini su un binario morto. Nei capitoli secondo e terzo del libro Delitti di mafia, depistaggi di Stato. Gli intrecci fra mafia, estremismo fascista e istituzioni deviate nelle vicende Mattei, De Mauro, Verzotto e Dalla Chiesa, edito nel 2020,  ho ricostruito per filo e per segno gli interventi messi in campo da settori delle Istituzioni per proteggere determinati retroscena della fine di Mauro De Mauro equiparati a segreti di Stato e a quelle pagine rimando il lettore.

Quando, nel 1995, le conversazioni con Graziano Verzotto toccarono per la prima volta il caso De Mauro il politico di origini padovane si mantenne quanto mai vago ed elusivo. Ha riproposto questo atteggiamento nelle sue memorie arrivando a scrivere che «la morte di De Mauro è ancora, come del resto quella di Mattei, avvolta nel mistero» (p. 94) dato che, «nonostante tante voci e tante ipotesi, nessuno riuscì mai a chiarire le modalità e le cause della sua enigmatica scomparsa» (p. 93). Ovviamente ha preso la palla al balzo per gettare nuovo fango su Tommaso Buscetta, etichettato come «convinto assertore» di quella che egli ha chiamato «pista mafiosa» (94). Essa viene generalmente denominata “pista Mattei”, in quanto il giornalista sarebbe stato sequestrato e soppresso da ambienti mafiosi perché «nello sforzo di indagare sulla morte di Mattei si era avvicinato troppo alla verità» (p. 94). A parere di Graziano quest’ultima «ipotesi, già dichiarata da Buscetta al giudice Giovanni Falcone», sarebbe stata da quest’ultimo «non creduta, perché il magistrato si atteneva ai fatti e non alle chiacchere» (p. 94). Si tratta dell’ennesimo falso. E’ invece risaputo che, pur avendo accettato di rivelare al giudice Giovanni Falcone, a partire dal 1984, gli organigrammi di Cosa Nostra, Buscetta aveva all’inizio deliberatamente omesso di raccontare quanto sapeva delle vicende Mattei e De Mauro[35] perché pensava che «i tempi non fossero ancora maturi» per parlare dei rapporti fra mafia e politica[36]. Evitò di dire «tutta la verità» su questo scottante tema anche nel 1986, convinto com’era «che la Giustizia italiana non sarebbe [stata] in grado di sopportare il peso di quanto [egli] conosc[eva] sulle vicende di mafia»[37]. Ribadì tale atteggiamento nel successivo 1988, avendo dovuto «amaramente constatare che persiste la mancanza di una seria volontà dello Stato di combattere il fenomeno mafioso», per cui da parte sua sarebbe stato «veramente da sconsiderati» fare rivelazioni sul delicato tema dei rapporti fra Cosa Nostra e politica in un momento in cui «gli stessi personaggi mafiosi di cui» avrebbe dovuto «parlare» non avevano ancora «lasciato la vita politica attiva»[38]. Una «svolta» nel suo «percorso collaborativo» la impresse solamente nella deposizione rilasciata al giudice Giancarlo Caselli il 29 aprile 1994 quando, «sull’onda anche emotiva della terribile sequenza delle stragi Falcone e Borsellino»[39], accettò di parlare dei rapporti fra mafia e politica, a partire dai casi Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta per finire con quelli Mattei e De Mauro.   

UNA SECONDA CATERVA DI RETICENZE E MENZOGNE – Anche se mai tradottasi in certezza giudiziaria, l’ipotesi che Mauro De Mauro sia stato sequestrato e soppresso da chi voleva impedirgli di rivelare gli scoop messi a segno sui retroscena della morte di Mattei era stata affacciata subito dopo il 16 settembre 1970. In compenso per decenni  si è lasciato credere che le sue clamorose notizie il giornalista le avesse acquisite nel corso dell’inchiesta commissionatagli dal regista napoletano Rosi. Verzotto ha per lungo tempo assecondato l’opera di disinformazione tacendo il fatto che un  incarico simile egli glielo aveva affidato tre o quattro mesi prima nell’ambito di una campagna di stampa da lui promossa ai danni di Cefis e Fanfani, contrari al metanodotto Algeria-Sicilia. Inoltre tramite un’intervista rilasciata a «L’Ora» del 23-24 ottobre 1970 aveva avallato la falsa “pista droga” confezionata dall’Arma dei carabinieri («credo che i colossali  interessi  investiti negli affari della droga abbisognino di essere lasciati assolutamente  in pace. Non vogliono intrusioni. Non vogliono  curiosità. Potrebbero aver fatto scomparire De Mauro per avvertire tutti.  E sarebbe  una cosa terribile»). Solo successivamente, e cioè nella deposizione rilasciata il 26 maggio 1971 ai giudici di Palermo indaganti sulla scomparsa di Mauro De Mauro, accennò vagamente ad un «lavoro di natura sociologica» sugli effetti dell’industrializzazione di Termini Imeresi da lui affidato al giornalista in data «31 luglio 1970» o «qualche giorno prima», in modo che risultasse posteriore all’incarico ricevuto da Rosi. Sull’argomento ha provato a menar il can per l’aia anche coi giudici di Pavia nel corso del triennio 1995-1998. Solo nella deposizione del 4 settembre 1998 – presentata in forma scritta, per cui viene da pensare che il testo sia stato concordato con l’avv. Luigi Verzotto, che proprio da quell’anno ha fatto iniziare l’assidua frequentazione del suo studio da parte del fratello – per recuperare un minimo di credibilità nei confronti degli inquirenti si è assunto la responsabilità dell’operazione ricattatoria impostata ai danni di Cefis e Fanfani («tra me e De Mauro c’era una intesa consolidatasi nel tempo. Da ultimo, io gli avevo chiesto di darmi una mano nel sostenere il progetto del metanodotto e nel contrastare chi vi si opponeva. Era inteso che tale aiuto – che De Mauro mi offriva di buon grado – doveva risolversi in articoli e servizi contro l’Eni e il suo vertice e a favore del metanodotto»). Ha ammesso che con l’incarico affidato da Rosi a De Mauro la loro capacità di pressione si era notevolmente accresciuta («io ero consapevole che tale film poteva essere uno strumento per sostenere e alimentare la campagna che l’ente da me presieduto intendeva portare avanti contro la presidenza dell’Eni e contro coloro che si opponevano alla realizzazione del metanodotto»). Ovviamente non ricordava quali spunti potesse aver fornito al giornalista per mettere sotto pressione Cefis e Fanfani ed ha cercato di nascondere il vero motivo per cui il 5 agosto 1970 aveva promosso un incontro fra De Mauro e l’avv. Vito Guarrasi, uomo di fiducia di Cefis in Sicilia. Solo nella deposizione scritta del 4 settembre 1998 ha ammesso di aver collaborato al depistaggio promosso dai carabinieri («ho anche detto in un’altra occasione che De Mauro era stato sequestrato perché aveva molestato la mafia che trafficava in droga. Ammetto di avere depistato»). In compenso ha riconosciuto che il giornalista era stato sequestrato ed ucciso «proprio a causa dell’incarico che [lui] gli avev[a] affidato e, soprattutto, in relazione alla indagine che egli stava svolgendo sulle responsabilità nella morte di Enrico Mattei». Alla fine della loro inchiesta i giudici della seconda sezione della Corte d’Assise di Palermo si sono convinti che siano stati lui e Guarrasi a richiedere l’intervento dei boss mafiosi che chiuse per sempre la bocca al giornalista e gli impedì di rivelare le scoperte effettuate sul caso Mattei[40]. Hanno pertanto scritto «che se Vito Guarrasi fu coinvolto nella vicenda del sequestro De Mauro, allora Verzotto lo è due volte di più, perché Guarrasi o chi per lui non avrebbe potuto fare a meno dell’apporto dell’ex senatore»[41].  Non hanno, però, potuto procedere alla incriminazione dei due sospettati perché Verzotto è passato a miglior vita nel 2010, un anno esatto prima dell’emanazione della sentenza, mentre Guarrasi era defunto già da una decina di anni. 

UN SOGNO INFRANTO: QUELLO DEL METANODOTTO ALGERIA-SICILIA  Graziano Verzotto divenne presidente dell’EMS (Ente Minerario siciliano), il più importante e famelico degli organismi di sottogoverno regionale, nel 1967. Negli anni successivi costituì e presiedette altre «numerose società per la promozione e lo sviluppo industriale della Sicilia», le più importanti delle quali – vale a dire l’Ispea, la Gecomeccanica e la Sochimisi – arrivarono a totalizzare da sole all’incirca 5800 dipendenti[42] e, conseguentemente, molte assunzioni da gestire con criteri discrezionali o clientelari. Nelle sue memorie Graziano si è poi vantato di essere stato il primo a pensare «alla realizzazione di un metanodotto sottomarino che, dalle sabbie del Sahara, portasse direttamente in Sicilia in gas algerino», in modo da garantire alle industrie siciliane progettate dal suo Ente minerario «un approvvigionamento energetico a basso costo», sganciandosi dalla «pesante e interessata tutela» dell’Eni e della Montedison, «entrambi controllati dal clan Cefis» (p. 109). Sua l’idea di costituire fra l’Ente minerario siciliano e la compagnia petrolifera di stato algerina una società mista, la Sonems, cui aderì con una quota azionaria minoritaria anche l’Eni di Eugenio Cefis. Quando però una società americana – la Bechtel – accertò la fattibilità dell’opera, l’Eni di Cefis si tirò improvvisamente indietro (fine 1969). Secondo Graziano, Cefis ed altri personaggi autorevoli si opponevano al metanodotto perché avevano investito denaro nella flotta di metaniere che dalla Libia trasportava in Italia il gas liquefatto ed inoltre l’Eni non intendeva rinunciare al monopolio sugli idrocarburi e sul loro prezzo. Di qui la decisione di ricorrere a strumenti di pressione abituali a quei tempi, come la campagna di stampa a sfondo ricattatorio impostata di concerto col giornalista Mauro De Mauro e conclusasi tragicamente. La battaglia per il metanodotto Algeria-Sicilia fu definitivamente persa da Graziano e dal suo EMS nel 1973, quando Cefis e Girotti – a quel tempo presidenti rispettivamente della Montedison e dell’Eni – riuscirono a tirare dalla loro parte il ministro siciliano Nino Gullotti. La costruzione del gasdotto Algeria-Sicilia fu allora riservata all’Eni, che inaugurò la conduttura nel 1983.  

Non vi è dubbio che il progetto di cui Verzotto ha rivendicato la paternità avesse una sua validità economica. E’ anche possibile che Cefis e Girotti fossero interessati a mantenere il controllo del prezzo del metano. Poco credibili appaiono, invece, le accuse di loro interessi personali nella flotta di metaniere. Probabilmente la loro ostilità all”EMS e a Verzotto discendeva dal timore di ritardi e sperperi a non finire nella costruzione dell’infrastruttura. In effetti nel 2011 davanti ai giudici di Palermo Raffaele Girotti ha ricondotto il dietrofront dell’Eni alla scarsa «fiducia» nutrita nei confronti di Verzotto, ritenuto non «in grado di portare a compimento il progetto» ed anzi sospettato di voler fare del metanodotto «uno strumento propagandistico o, peggio, un’occasione per drenare pubbliche risorse»[43].

UN’AMBIZIONE SMISURATA – Nelle sue memorie Graziano ha rivendicato con orgoglio anche la battaglia combattuta a fianco di Nino Rovelli, proprietario della SIR (Società Italiana Resine), considerata il «terzo gruppo petrolchimico italiano dopo Eni e Montedison» (p. 158), contro le rivali Montedison ed Eni. Se Rovelli mirava a far la parte del leone nell’accaparrarsi i finanziamenti statali a tasso agevolato e gli incentivi regionali a fondo perduto, ad un certo punto Verzotto ha visto in lui un valido alleato nella guerra contro Cefis e Girotti e un potenziale sostenitore della sua corsa alla presidenza dell’Eni, obiettivo non taciuto neanche nelle sue memorie (p. 164). Tale incarico gli avrebbe consentito, tra l’altro, di risolvere a suo favore la partita del metanodotto Algeria-Sicilia. Ovviamente si è ben guardato dall’accennare ai mezzi usati per conseguire tale ambizioso obiettivo. Ad esempio alle pp. 169-170 ha scritto che fu «invitato ad entrare nel consiglio d’amministrazione» del Banco di Milano (ex Banca Loria), in quanto «Milano era ed è il centro della finanza italiana», senza indicare chi lo avrebbe invitato ad entrare e le ragioni per le quali un presidente di un ente di sviluppo economico siciliano avrebbe dovuto assumere impegni in una città così lontana dall’isola. Quella carica fu da lui effettivamente ricoperta (a partire dal 28 aprile 1972) e da altre fonti sappiamo che quella sua candidatura fu appoggiata dall’avv. Vito Guarrasi, «protagonista reale o presunto ma sempre discusso e controverso quant’altri mai di tante vicende siciliane contrassegnate da sulfurei intrecci tra potere politico (ed economico) e affari»[44], oltre che consulente del suo Ente minerario e coinvolto come lui nelle vicende Mattei e De Mauro. Come al solito Graziano ha taciuto un altro particolare importante, e cioè che il biglietto d’ingresso nel Banco di Milano fu costituito dal deposito in quell’istituto di credito della somma di  2,5 dei 10 miliardi complessivamente parcheggiati dal suo EMS in banche inizialmente di proprietà del bancarottiere siciliano Michele Sindona, circostanza surrettiziamente ammessa a p. 171. Paradossalmente nel novembre del 1972, mentre  egli depositava questi soldi in banche del Nord Italia a «modesti interessi», il suo Ente minerario si trovava «esposto per 27 miliardi» con altre banche siciliane e a interessi decisamente superiori. Solo a fine marzo 1973 tale «esposizione» si ridusse a «23 miliardi e mezzo»[45].

Operazioni così irrazionali e spregiudicate discendevano dall’esigenza di procurarsi amicizie in ambienti finanziari influenti, oltre che somme di denaro in nero con le quali aumentare la propria influenza nella politique politicienne del tempo. Quando però le banche di Sindona fallirono e l’avv. Giorgio Ambrosoli fu chiamato a controllarne i bilanci, gli interessi corrisposti in nero vennero a galla e per Verzotto cominciarono i guai giudiziari. Di essi, ovviamente, ha dato nelle sue memorie una versione  decisamente addomesticata. 

LE DIMISSIONI DALLA PRESIDENZA DELL’ENTE MINERARIO Secondo Graziano i suoi «guai» giudiziari sarebbero invece iniziati quando Rosario Nicoletti, segretario regionale della DC pro tempore e suo avversario nel partito, «continuò il dialogo, d’altronde mai interrotto, col PCI» siciliano allora diretto da Achille Occhetto. Per mettere in difficoltà un politico della vecchia guardia come lui i democristiani di sinistra e i comunisti isolani sarebbero ricorsi «a qualsiasi mezzo, ma soprattutto alla stampa». Lui tenne duro «finché i compagni comunisti non gl[i] tagliarono i fondi regionali destinati all’EMS». A quel punto «i rubinetti, quindi, si chiusero, «gli operai non potevano più essere pagati» e così egli fu «costretto alle dimissioni» (p. 121). Ha dimenticato di precisare che i comunisti stavano all’opposizione, per cui spettava ai partiti di governo nell’isola – a partire dal suo – decidere se continuare o meno ad elargire i fondi destinati all’Ente minerario da lui presieduto. In altra parte delle memorie Graziano ha fatto discendere le sue «dimissioni da presidente dell’EMS» dalla «guerra mossa[gl]i dai comunisti, dalla Montedison e dall’Eni», che si sarebbe concretizzata «in azioni giudiziarie, che interessarono il Banco di Milano e la Banca Privata di Sindona» (p. 164). Come al solito ha ribaltato la frittata, perché fu il fallimento delle banche di Sindona a richiedere l’indagine giudiziaria nel corso della quale l’avv. Giorgio Ambrosoli – lo “eroe borghese” fatto ammazzare da Michele Sindona – scoprì gli interessi in nero pagati a Graziano Verzotto e a due dei suoi collaboratori. Solo a questo punto l’Assemblea regionale siciliana promosse una propria inchiesta, al termine della quale Graziano fu comunque costretto a dare le dimissioni (27 gennaio 1975). Tuttavia nelle sue memorie egli ha preteso di aver abbandonato «spontaneamente» la presidenza dell’ente minerario e questo «nonostante l’esito positivo dell’ispezione governativa siciliana» esplicata dal dr. Giuseppe Orlandi. Lo avrebbe fatto – novello Cincinnato! – per non lasciare che i suoi «dipendenti rimanessero senza stipendio» (p. 176) proprio nel momento in cui gli investimenti da lui effettuati stavano per dare in campo produttivo ed occupazionale, i mirabolanti risultati da lui descritti a p. 173 delle sue memorie. Assai diverso il giudizio espresso sulla sua gestione dell’EMS dai suoi avversari politici e dai suoi stessi compagni di partito. Quanto all’avv. Giorgio Ambrosoli, dalla lettera indirizzata alla moglie in data 25 febbraio 1975 – e considerata il suo testamento spirituale – veniamo a sapere che non si sentiva affatto tranquillo nel gestire «faccende alla Verzotto» e che per il fatto di «dover trattare con gente di ogni colore e di ogni risma» temeva di dover pagare «a molto caro prezzo l’incarico» accettato per «fare qualcosa» di buono «per il Paese» di cui era cittadino[46]

UN BILANCIO FALLIMENTARE –  Il giudizio più severo sui quasi otto anni di gestione dell’Ente minerario siciliano da parte di Graziano Verzotto l’ha probabilmente espresso il senatore Luigi Carraro, presidente della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, padovano e democristiano come lui. Ha scritto nella relazione di maggioranza licenziata il 4 febbraio 1976:

[…] L’EMS determinò  e favorì la creazione di numerose società con scopi che esorbitavano dalle ragione che ne avevano consigliato l’istituzione, determinando così una proliferazione di aziende proiettate nei più vari settori economici. Anche in questo caso, peraltro, nella costituzione degli organi societari si badò piò ad accontentare i vari gruppi politici e queste operazioni, talora particolarmente difficili, hanno fatto passare in secondo piano la gestione stessa delle società. Nel corso degli anni, infatti, le varie aziende hanno in sostanza finito col procurare stipendi per il personale, tanto che i bilanci di numerose collegate presentano un forte deficit di fronte ad un attivo che spesso non consente nemmeno di far fronte alle spese correnti[47].

Una stroncatura altrettanto netta l’ha riservata all’avv. Vito Guarrasi, «anche lui legato da vincoli di affari e di amicizia» con Verzotto[48]. Qualche anno prima costui aveva trasformato «le esauste miniere di zolfo della Sicilia in una fonte di guadagno a carico dell’erario pubblico»[49] e  a tutto vantaggio dei proprietari privati. Secondo il sen. Carraro, questo modo di amministrare i soldi pubblici aveva contribuito alla creazione di un brodo di coltura favorevole allo sviluppo della mafia:   

Le vicende e gli episodi ora narrati non sembrano legati col mondo della mafia, ma resta il fatto che è stato proprio nel parassitismo e nel clientelismo programmatico, in una parola nel sistema di malgoverno, di sprechi, di strumentalizzazione delle stesse istituzioni, e quindi nel comportamento di certe persone che  hanno trovato terreno favorevole e nuovo alimento il costume e la presenza mafiose[50].

Raramente sprechi, ruberie e arricchimenti illeciti diventavano in quegli anni oggetto di inchieste giudiziarie, ma con una pubblica amministrazione ed una magistratura legate in mille modi ai partiti di governo la cosa non dovrebbe costituire motivo di meraviglia. 

ALLA GUERRA DEI BOIARDI DI STATO  – Per contrastare Eni e Montedison ad un certo punto l’EMS di Verzotto strinse un’alleanza strategica con la SIR di Nino Rovelli che, dopo aver costruito in Sardegna le “cattedrali nel deserto” di Porto Torres ed Ottana, puntava a ripetere la stessa operazione in Sicilia facendo il pieno di incentivi pubblici. Nelle sue memorie Graziano ha difeso a spada tratta l’acquisto (1969), da parte della società da lui presieduta, di una vecchia raffineria di petrolio privata sita a Termini Imerese. All’interno di un progetto che avrebbe visto il suo EMS «passare dall’ambito strettamente minerario a quello petrolchimico» (p. 157) – allora considerato il non plus ultra della modernità – egli intendeva dar vita, unitamente alla SIR di Nino Rovelli, al «complesso petrolchimico di Licata», in modo da «soddisfare la richiesta di lavoro di migliaia di disoccupati» che vivevano nella parte meridionale della Sicilia. Complici «il rialzo del prezzo» del greggio e la «crisi della petrolchimica mondiale» della metà degli anni ’70 (p. 161) l’investimento si risolse in un gigantesco spreco di denaro pubblico. Secondo Graziano le difficoltà incontrate dall’investimento furono aggravate dalla guerra fatta da Eni e  Montedison «contro Rovelli». Le due società, che con la SIR si contendevano il primato nella chimica italiana, «tanto fecero che i terreni, già acquistati e spianati, rimasero incolti ed abbandonati» (p. 159). Nelle conversazioni del 1975 aveva fatto derivare tanta ostilità dalla «supposizione che Rovelli a[vesse] utilizzato i dieci miliardi di lire» avuti dal suo Ente minerario «per l’acquisizione di azioni Montedison nei giorni della tentata scalata» alla società da parte dell’imprenditore lombardo, che godeva dell’appoggio di Andreotti, ma nelle sue memorie egli ha omesso questa informazione.

Il tempo  ha dimostrato che tutti i grandi complessi petrolchimici costruiti con generosi incentivi pubblici – talvolta per somme superiori agli stessi investimenti privati – si sono dimostrati incapaci di dar vita ad un virtuoso indotto costituito da piccole e medie attività economiche, le uniche in grado di lenire il grave problema della disoccupazione. Contro tale scandalosa pagina di sprechi tuonarono giornalisti di razza, come Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani[51]. I giudici intervennero spesso in ritardo o con inchieste non sempre cristalline[52]. Tutti i grandi complessi chimici ne uscirono con le ossa rotte, a cominciare dalla SIR di Rovelli, che ad un certo punto era sembrata avere la meglio sulle rivali Eni e Montedison. Anche nel caso di Licata i magistrati intervennero quando i buoi erano già scappati dalla stalla. Nelle sue memorie Graziano ha precisato di essere stato personalmente assolto da una magistratura che, fatte le dovute indagini sui «dieci miliardi di lire da lui consegnati a Rovelli prima di lasciare il suolo nazionale» – cioè prima di rendersi latitante all’estero – «trovò tutto regolare». Buon per lui, ma il suo proscioglimento in sede giudiziaria non toglie che l’investimento di Licata si sia risolto in un enorme spreco di denaro pubblico.  

IL FALLITO SEQUESTRO SIRACUSANO DEL 1 FEBBRAIO 1975 – A p. 164 delle sue memorie Graziano ha definito «misterioso» anche il «tentativo di sequestro di persona di cui fu vittima a Siracusa la sera del 1 febbraio 1975 «a due metri dalla porta del [suo] appartamento». Si trattò in ogni caso di un vero agguato e non di una messinscena, come scrissero allora molti giornali, ai quali sembrava impossibile che un politico noto per il suoi buoni rapporti con l’universo mafioso potesse essere rimasto vittima di un’operazione estorsiva riconducibile a Cosa Nostra. Graziano dev’essere pertanto creduto quando ha scritto di aver corso «veramente pericolo di vita» (p. 164). Se l’operazione avesse avuto successo gli sarebbe stata quasi certamente riservato il trattamento inflitto cinque anni prima al suo amico Mauro De Mauro, a partire dalla famigerata strinciuta: una raffinata tortura per costringerlo a vuotare il sacco delle informazioni in suo possesso e dei suoi propositi. Nelle sue memorie Graziano ha ricondotto la sua salvezza al «coraggio» proprio e a quello della moglie, intervenuta in suo aiuto (p. 164). Del tentativo di sequestro si interessarono i giudici, ma quella uscita dai processi dev’essere considerata, come in tanti altri casi,  una verità parziale e sotto molti aspetti fasulla. Eppure per gli inquirenti siciliani risultò particolarmente agevole risalire al «basista» del gruppo di malviventi – tre in tutto – che avevano cercato di sequestrarlo davanti alla porta del suo appartamento siracusano. Si chiamava Berardino Andreola e vantava effettivamente «un passato burrascoso» (p. 177), anche se non era possibile che «in epoca fascista» fosse «stato membro dell’OVRA, la famigerata polizia segreta di Mussolini», essendo nato nel 1928. Dell’OVRA era stato membro il padre, da cui aveva ereditato i sentimenti favorevoli alla causa fascista, poi conservati per tutta la vita. Corrispondeva invece a verità la circostanza che «nel corso del conflitto» avesse giovanissimo «tentato di entrare nella X Mas agli ordini di Valerio Borghese», mentre non è provato che nel dopoguerra fosse «entrato a far parte dei servizi segreti della Germania dell’Est» (p. 180), anche se la facilità con cui si muoveva a Berlino Est e contattava ufficiali della Germania comunista lascia aperti molteplici interrogativi. A giudizio di molti osservatori Andreola operava invece come confidente dell’Arma dei carabinieri e tutto lascia credere che il sequestro di Verzotto l’abbia organizzato col benestare anche dei nostri servizi segreti, interessati a chiudere la bocca pere sempre ad un politico che, una volta costretto a rassegnare le dimissioni dalla presidenza dell’EMS, era tornato a minacciare rivelazioni sui segreti di Stato a sua conoscenza (a partire dai casi Mattei e De Mauro).

Per quanto riguarda il «movente» dell’agguato, Graziano si è limitato a riportare la dichiarazione del suo segretario personale Sandrino Troja – sostanzialmente condivisa dai giudici di Siracusa e Catania – secondo il quale «lo scopo del rapimento era l’estorsione di denaro» (p. 180). Si è dimenticato di precisare che Troja era stato un collaboratore dello 007 milanese Tom Ponzi, di provata fede fascista, e che egli l’aveva assunto nel 1972 per bonificare le linee telefoniche del suo ufficio palermitano dell’EMS dalle microspie che avevano consentito al principe del gossip giornalistico italiano Mino Pecorelli  – direttore del famigerato «OP» (Osservatorio Politico) – di pubblicare la notizia riservata del deposito di diversi miliardi di lire dell’EMS nelle banche di Sindona. Dando per scontato che scopo del sequestro fosse il pagamento di un riscatto, Graziano non ha spiegato da dove potessero venire i due miliardi di  lire, di cui parlò a suo tempo la stampa dato che, a giudizio dei magistrati di Siracusa, la vendita dello «agrumeto di Agnone», di proprietà della moglie, non fu perfezionata per «sopravvenute difficoltà»[53]. Pur avendo «sempre pensato che dietro a tutta la vicenda ci fossero dei mandanti» (p. 181) Graziano non si è sbilanciato né sulla loro identità, né sul plausibile movente. Anche se probabilmente non ha mai conosciuto tutti i retroscena della sua aggressione, deve averne intuito gli addentellati meno commendevoli: quelli da me ricostruiti nel cap. IV del volume Delitti di mafia, depistaggi di Stato, uscito nel 2020. In una precedente pubblicazione – Giangiacomo Feltrinelli. Un omicidio politico – edita nel 2018, avevo dimostrato come qualche tempo prima, travestito da maoista, Andreola avesse col nome di battaglia di “Gunter” (o “Gunther”) conquistato la fiducia dell’editore milanese Feltrinelli, facendolo poi saltare in aria sotto il celebre traliccio di Segrate il 14 marzo 1972. Si trattò di un delitto su commissione, sollecitato dal fascista Giovanni Ventura nato a Piombino Dese e residente a Castelfranco Veneto, allora ristretto nel carcere di Treviso. Messo alle strette dai giudici Giancarlo Stiz e Guido Calogero, alla fine del febbraio 1972 costui aveva richiesto ai suoi complici un diversivo capace di rinverdire la pista rossa per la bomba di Piazza Fontana. Il cadavere dell’editore mutilato sotto il traliccio che aveva cercato di far saltare in aria si prestò egregiamente allo scopo. Per togliere di mezzo Graziano Verzotto nel 1975 fu necessario ricorrere ai servigi di un fascista come Andreola, anziché a un sicario di Cosa Nostra, perché l’ex presidente dell’EMS godeva della protezione di influenti boss mafiosi e in Sicilia sarebbe stato impossibile agire senza il loro benestare. Il romano Berardino Andreola vantava una madre siciliana e, prima di scendere nell’isola, aveva provveduto a accaparrarsi la fiducia di alcuni mafiosi siciliani emigrati a Berlino ovest, che a loro volta lo accreditarono presso i loro amici operanti nei dintorni di Palermo.        

RISCHI DI MORTE  –  Che dietro l’agguato di Siracusa ci fossero avversari potenti ed occulti, diversi dai comuni malavitosi, Graziano lo ha implicitamente riconosciuto a p. 180 delle sue memorie, quando ha scritto che «il 12 marzo 1975» dovette lasciare «l’Italia per non finire [lui] stesso in prigione, o in cimitero». Neppure stavolta il suo intervistatore gli ha chiesto spiegazioni per affermazione così impegnative, mentre risulta evidente che chi lo voleva morto gli addebitava colpe ben più gravi della sottrazione di qualche decina di milioni di lire dalle casse dell’EMS. Nel 1995 aveva rivelato allo scrivente il timore che, nei due o tre giorni da trascorrere in prigione prima di essere rimesso in libertà provvisoria, qualcuno potesse riservargli la sorte di Gaspare Pisciotta, ucciso da un caffè alla stricnina in carcere dopo aver minacciato rivelazioni clamorose sulle complicità politiche dell’assassinio del bandito Salvatore Giuliano.

Per quanto riguarda specificamente i fondi neri, pur non avendo mai ammesso esplicitamente di averli intascati, a p. 172 delle memorie Graziano ha scritto che la «loro esistenza non era un mistero per nessuno», in quanto «tutti gli enti, pubblici o privati, se vogliamo essere sinceri, ne facevano ampio uso per finanziare i partiti, nessuno escluso». E tuttavia, al pari di Silvio Berlusconi e di tanti altri politici travolti da Tangentopoli, egli si è considerato vittima di un «processo politico» (p. 185). Nel suo caso i giudici di Milano avrebbero invece congelato «fino alla prescrizione le indagini nei confronti della Gescal», la società a capitale pubblico allora «presieduta da Franco Briatico, uomo di fiducia di Cefis», che pure di miliardi nelle banche di Sindona ne aveva depositato una trentina. Essi avrebbero riservato un trattamento di favore pure ai dirigenti di Finmeccanica, la società a partecipazione statale allora «diretta da Giorgio Tupini, figlio di Umberto, uno dei padri della DC», che «aveva depositato 40 miliardi di lire» (p. 171) negli stessi istituti di credito, lucrandovi i relativi interessi in nero. «Perché tanta fretta nei confronti di uno solo dei tre Enti indagati?» – si è chiesto. Eppure la spiegazione era semplice: ammesso che si fossero resi colpevoli del suo stesso reato, i due dirigenti avevano rubato per il partito e non per sé e, soprattutto, non avevano minacciato di rivelare segreti di Stato.

Nelle conversazioni del 1995 Graziano ha esplicitamente ammesso di aver corso il rischio di una liquidazione fisica, in aggiunta a quella politica e morale. E tuttavia il più grande dispiacere glielo avrebbe dato il segretario politico DC Amintore Fanfani sospendendolo dal partito, privandolo cioè della protezione politica che in quegli anni veniva assicurata anche ai protagonisti dei maggiori scandali nazionali, come quelli del petrolio e Lockheed. Quella volta il politico toscano si rifiutò addirittura di ricevere sua moglie, da sempre esponente della sua corrente politica. Si è tuttavia dimenticato di precisare che anche a lui fu lasciata una via d’uscita onorevole. Non fu un caso, infatti, se nei sedici anni di latitanza dorata trascorsi in Francia non venne mai disturbato dall’Interpol né dai servizi segreti italiani o francesi. 

SEDICI ANNI DI «VOLONTARIO ESILIO»? Pieno di reticenze e menzogne appare anche il paragrafo della latitanza all’estero. A p. 195 delle memorie Graziano ha scritto di aver varcato la frontiera svizzera a Chiasso «con il passaporto che non [gl]i era stato ancora ritirato» e di aver poi raggiunto Parigi passando «dalla Svizzera». Doppia falsità, perché il suo primo rifugio lo trovò in Libano, Paese privo di accordi di estradizione con l’Italia, lo stesso nel quale sei anni prima aveva trovato ospitalità il famoso bancarottiere Felice Riva. E proprio nella capitale Beirut Graziano convocò – nel maggio del 1975 – gli inviati dei maggiori quotidiani e periodici italiani per lanciare messaggi in codice ai politici che sembravano averlo abbandonato al proprio destino. Al suo fianco aveva l’avv. Ludovico Corrao, il senatore della Sinistra indipendente, già collaboratore di Silvio Milazzo, che per assumere la sua difesa legale si era messo in urto col segretario del PCI siciliano Achille Occhetto. Il fatto che le clamorose rivelazioni ventilate non siano mai state effettuate fa pensare che la sola minaccia abbia sortito gli effetti desiderati. Già a luglio 1975, infatti, gli fu consentito di raggiungere in aereo la Francia via Atene dopo che l’insorgere della guerra civile aveva reso insicuri la città di Beirut e l’intero Libano.  

A p. 165 delle memorie Graziano ha inoltre precisato che il consiglio di «lasciare l’Italia in volontario esilio» gli era stato elargito da alcuni suoi «amici delle forze dell’ordine». Nel 1995 aveva fatto esplicitamente il nome del col. Giuseppe Russo, l’ufficiale dei carabinieri responsabile dell’ufficio investigativo palermitano dell’Arma dopo essere stato, tra il 1967 ed il 1973, il braccio destro del col. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Si era sbagliato dunque Enzo Biagi quando, sul «Corriere della Sera» del 20 marzo 1975, aveva presentato Graziano come «un tipico personaggio dei nostri tempi. Comincia da partigiano e finisce ricercato: non dai tedeschi, ma dai Carabinieri». Furono infatti questi ultimi ad agevolare la sua fuga in Francia, dopo averlo coperto nel 1970 inventando la falsa “pista droga” per il sequestro De Mauro e inscenato il 13 settembre 1971 l’interrogatorio farsa che lo presentava ai giudici di Palermo come bersaglio di risentimento mafiosi, anziché sodale di influenti boss di Cosa Nostra. Neanche stavolta il buon Guerrino Citton si è chiesto cosa abbia spinto un tutore della legge a sottrarre alla giustizia un politico colpito da due mandati di cattura, essendo risaputo che col democristiano Aldo Moro presidente del consiglio dei ministri e Oronzo Reale ministro di Grazia e Giustizia l’Italia del 1975 non poteva certo essere equiparata ad una dittatura comunista. Men che meno si è incuriosito del fatto che le autorità francesi abbiano consentito ad un ricercato dalla giustizia italiana non solo di muoversi alla luce del sole, ma di fare «amicizia anche con uomini della forze dell’ordine e della pubblica amministrazione» del Paese d’Oltralpe (pp. 197-197). Nonostante la cosiddetta “dottrina Mitterand” fosse ancora di là da venire,  le autorità francesi rilasciarono a Verzotto un passaporto con cui egli poté muoversi liberamente nei paesi del Maghreb, per concludere affari nel settore petrolifero grazie alle rete di relazioni intessute durante le trattative per il metanodotto Algeria-Sicilia. Neppure le autorità italiane ebbero a disturbarlo, tanto che Graziano si è vantato nelle sue memorie di aver incontrato, fra gli altri, «l’ex questore di Palermo dr. Li Donni», rappresentante della «sezione italiana dell’Interpol». Avendolo riconosciuto costui «avrebbe potuto far[lo] arrestare», ma «non lo diede a vedere e continuò la conversazione con i colleghi, come se nulla fosse successo (p. 196).

UNA RIABILITAZIONE INVENTATA – A p. 200 delle memorie Guerrino Citton si è bevuto senza fiatare anche la favola della «completa riabilitazione giudiziaria» di Graziano Verzotto, individuandone «il primo passo» nella revoca dell’ennesimo «mandato di cattura spiccato nel luglio 1981». Eppure in quella stessa pagina Graziano aveva ricordato che la sentenza di condanna per gli interessi in nero passatigli sottobanco dalle banche ex Sindona, riportata a Milano il 13/05/1976, era stata ribadita sia dalla Corte d’Assise d’Appello (2 ottobre 1978), che dalla Corte di Cassazione (15 gennaio 1980). Secondo  Citton tale «ingiusta condanna» sarebbe stata «cancellata» dal «condono del 1989» (p. 203). In realtà nello schema di un’autobiografia, consegnato al sottoscritto nel  1995, Graziano  aveva scritto di aver beneficiato di un semplice «indulto», una misura di clemenza che, a differenza dell’amnistia, non estingue il reato, ma solo la pena, per cui appare del tutto improprio parlare di riabilitazione giudiziaria.  

Decaduti i mandati di cattura, Graziano poté rientrare nel Belpaese alla metà del 1991. Ha scritto che i servizi segreti italiani gli fecero immediatamente riavere il passaporto ed ottenere la pensione. Purtroppo per lui tre o quattro anni dopo ricominciarono le traversie giudiziarie. Avendolo presto individuato come personaggio chiave della vicenda Mattei, su cui avevano riaperto le indagini, il p.m. pavese Vincenzo Calia e i suoi collaboratori acquisirono una decina di volte la sua testimonianza fra il 1995 il 1998. Dalla lettura dei verbali delle deposizioni non si ricava affatto l’impressione che Graziano abbia esposto alla magistratura «quanto era a [su]a conoscenza». Al contrario le sue risposte – sempre circospette – configurano un continuo menare il can per l’aia. Un salto di qualità si può rilevare solo nella deposizione scritta del 4 settembre 1998, dopo la quale l’ufficiale di polizia giudiziaria Enrico Guastini gli ha riconosciuto il merito di aver «riferito fatti e circostanze di rilevanza eccezionale sul “caso De Mauro”»[54], peraltro non oggetto dell’inchiesta pavese. Pertanto quando nel 2006 le nuove rivelazioni di collaboratori di giustizia indussero i magistrati palermitani a riaprire una nuova (la terza) inchiesta sulla vicenda Mauro De Mauro, Graziano entrò di prepotenza anche in quel filone di indagini. In data 8 e 9 giugno 2007 i giudici della terza sezione della Corte d’Assise di Palermo procedettero al suo formale interrogatorio nell’aula bunker del Tribunale di Padova e il 21 maggio 2010, «attesi gli stridenti contrasti emersi al dibattimento rispetto alle dichiarazioni resa a Pavia», formularono «la richiesta di un nuovo esame di Verzotto». Sennonché all’udienza del 4 giugno 2010 «una nota dei carabinieri di Padova informava che Graziano Verzotto era stato ricoverato in ospedale per un peggioramento delle sue condizioni di salute» e che anche dopo le dimissioni «versava in condizioni che gli impedivano di spostarsi se non in ambulanza». A questo punto «la Corte disponeva accertamenti medici urgenti, che però non potevano espletarsi perché […] Graziano Verzotto decedeva il 12 giugno 2010»[55].

La morte ha dunque impedito ai giudici di Palermo di «verificare, con più mirate contestazioni, e se del caso mutando la veste processuale del dichiarante per garantirne i diritti di difesa, i tanti elementi emersi a suo carico, dandogli al contempo la possibilità di confutarli nella pienezza del contraddittorio». Sennonché «le peggiorate condizioni di salute e poi l’exitus hanno precluso il compimento di questa decisiva attività istruttoria»[56]. Così suo fratello Luigi ha potuto sostenere che Graziano non è mai stato condannato e nemmeno imputato nei procedimenti giudiziari aperti sui delitti Mattei e De Mauro.   

POSTFAZIONE

LE SENTENZE SI RISPETTANO E SI APPLICANO, MA POSSONO ESSERE ANCHE CRITICATE (SPECIE QUANDO NON SONO DEFINITIVE) Mi sono deciso ad analizzare e commentare le memorie di Graziano Verzotto dopo che, in data 30 giugno 2020, il giudice del Tribunale di Padova Luca Marani mi ha condannato per diffamazione di cotanto personaggio. Oltre a incrinare fortemente, agli occhi della gente comune, quel poco di credibilità che mi ero acquistato in quarant’anni di ricerche storiche condotte con onestà d’intenti e senza alcuna prospettiva di remunerazione, la sentenza e la relativa, gravosa sanzione pecuniaria (di importo complessivo superiore al mio reddito annuo) hanno suscitato in me un mix di stupore, mortificazione ed indignazione. Per un attimo mi è sembrato di vivere in una repubblica delle banane o di rivedere una vecchia pagina di faide giudiziarie tra politici e magistrati. Nel frattempo la mia fiducia nella magistratura italiana è scesa ai livelli minimi e tuttora mi chiedo se chi mi ha condannato ha veramente agito secondo legge e secondo discernimento.

Dal testo della sentenza non si capisce se la scure del giudice si sia abbattuta su tutte e quattro le enunciazioni contenute nelle sei righe incriminate della mia postfazione al volumetto Vito Filipetto. L’uomo, il maestro, il partigiano di Giuseppe Criscenti, oppure solamente sulle ultime due. Chi ha letto le mie pubblicazioni o anche solamente il presente saggio dispone degli elementi per valutare la fondatezza o meno delle accuse da me rivolte a Graziano Verzotto di aver stabilito, nel periodo trascorso in Sicilia, «stretti rapporti coi boss mafiosi Beppe Di Cristina e Pippo Calderone», così come di essersi reso responsabile di «sperpero di denaro pubblico nelle vesti di presidente dell’Ente Minerario Siciliano». Fino a quando, però, non sarà emessa una sentenza definitiva di condanna, continuerò a ritenere del tutto legittima, sul piano storiografico, anche la tesi di una «complicità» di Graziano Verzotto «in efferati delitti di Stato» (così denominati perché i loro autori hanno usufruito di molteplici e multiformi coperture istituzionali), come «gli assassinii del fondatore dell’Eni Enrico Mattei e del giornalista ficcanaso Mauro De Mauro». Non si tratta di testardaggine o arroganza, ma di coerenza e serietà. Si parva licet componere magnis perfino Galileo Galilei, una volta costretto dalla Santa Inquisizione a ripudiare, con minacce di torture e di morte, le sue teorie eliocentriche, avrebbe ribadito in privato l’infondatezza di quelle geocentriche («e pur si muove!»).

Le mie affermazioni si basano su una autonoma, imponente documentazione archivistica e bibliografica, ma rispecchiano anche le conclusioni tratte dai giudici della terza sezione della Corte d’Assise di Palermo al termine della loro inchiesta sul delitto De Mauro e inserite nelle motivazioni – ben 2199 pagine! – della sentenza emessa in data 10 giugno 2011. Ovviamente dissento dal dr. Marani quando ha affermato che queste ultime sono state smentite nei successivi gradi di giudizio. Scrivendo dapprima che risultava «particolarmente difficile se non impossibile distinguere con certezza i fatti come realmente accaduti» e poi che «non pare che in ordine alla ricostruzione degli ultimi giorni del giornalista si sia potuti andare al di là di ciò che è altamente probabile oppure che è verosimile che sia accaduto», i giudici della Corte d’Appello hanno, a mio parere, semplicemente inteso rimarcare l’assenza di certezze. Tale requisito è indispensabile per emettere sentenze di condanna in sede giudiziaria, quando la colpevolezza dell’imputato deve essere accertata oltre ogni ragionevole dubbio. Non altrettanto nelle ricostruzioni storiche, visto che agli studiosi si richiedono professionalità, scrupolo e correttezza, ma non certo infallibilità. Condivido, pertanto, le considerazioni esposte dagli amici dell’ISTRESCO (Istituto trevigiano per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea) in un loro comunicato stampa di solidarietà alla mia persona emanato in data 24 settembre 2020:

La storiografia è esame delle fonti, interpretazione dei documenti e pubblica presentazione dei risultati; è una scienza congetturale, che propone sempre ipotesi e mai può dire di avere raggiunto la verità; tutte le tesi sostenute in un libro di storia possono essere verificate, contestate e anche confutate. Ma non da un Tribunale della Repubblica.

(http://www.istresco.org/notizie/584-comunicato-stampa-processo-ad-egidio-ceccato.html)

Del resto anche i magistrati della Corte di Cassazione hanno giudicato  «verosimile» la ricostruzione dei delitti Mattei e De Mauro effettuata dai giudici di primo grado. Se poi si aggiunge, come ricordato dal mio legale nel ricorso in appello, che «in seguito si sono dimostrati infondati sia l’esposto al C.S.M. [‘Consiglio Superiore della Magistratura’] sia la denuncia-querela proposti dall’avv. Verzotto nei confronti dei magistrati autori della tesi sgradita»[57], degradare come ha fatto quest’ultimo a «mere congetture» le ipotesi di un coinvolgimento del congiunto nei delitti Mattei e De Mauro formulate dai giudici della Corte d’Assise di Palermo, mi sembra una forzatura. Ritengo pertanto che la sentenza del giudice Marani infligga uno schiaffo morale anche a questi magistrati, le cui ricostruzioni e interpretazioni dei fatti sono state, a mio parere, problematizzate ma non certo smentite dai loro colleghi in Appello e in Cassazione. E’ vero, come rilevato dal dr. Marani, che nel processo iniziato nel 2006 l’imputato per l’uccisione di Mauro De Mauro era Totò Riina e non Graziano Verzotto, ma il fatto che il boss di Corleone sia stato assolto in tutti e tre i gradi di giudizio e che, dopo anni di meticolose indagini, i sospetti dei giudici di primo grado si siano appuntati sul politico di origini padovane costituisce per uno storico un dato altamente significativo. E se il nome di Verzotto è poi sparito dalle successive fasi del dibattimento ciò è dipeso dal fatto che nei paesi civili non è consuetudine processare e condannare le persone defunte (quando fu emessa la sentenza il politico originario di S. Giustina in Colle era deceduto da oltre un anno).

Il giudice Marani ha poi etichettato come perentorie ed apodittiche le mie accuse a Graziano Verzotto in quanto prive di «elementi ricordati al lettore e da questi accessibili». Del tutto evidente che ciò dipendeva dalla particolare tipologia del testo in cui erano inserite, perché quando uno è ospite di uno spazio altrui non può argomentare e documentare in lungo e in largo le proprie analisi ed enunciazioni. In casi del genere fanno testo le precedenti pubblicazioni di un autore e nel mio caso le tesi incriminate erano tutte presenti non solo ne L’Infiltrato – un volume uscito nel 2013 – e in una Memoria difensiva allegata agli atti (e probabilmente mai letta dal giudice), ma anche nella corrispondenza scambiata col querelante prima dell’inizio formale della lite e infine nelle mie opere uscite fra il 2017 ed il 2020, ma nel 2016 tutte già in fase di avanzata elaborazione.

Nel sostenere inoltre l’eterogeneità della tesi incriminate rispetto al contenuto del volumetto che ospitava la postfazione, il giudice è sembrato ignorare che compito dello storico è quello di andare oltre l’analisi degli eventi narrati per evidenziarne gli antefatti e gli sviluppi nel tempo. Ho pertanto ritenuto perfettamente lecito leggere nella facilità con cui, durante la Resistenza, Verzotto aveva tradito prima i garibaldini e poi i nazifascisti un’anticipazione della «spregiudicatezza etica» di cui avrebbe dato prova in Sicilia tramando a danno di Mattei e De Mauro, il primo suo maestro e il secondo suo amico. Altrettanto interpretare il silenzio da lui conservato sulla vera natura degli accordi stipulati coi nazifascisti nel dicembre 1944 e sul peso esercitato dalla loro violazione nell’eccidio del 27 aprile 1945 come un’anticipazione dell’omertà da lui mantenuta sui retroscena dei delitti eccellenti datati 27 ottobre 1962 e 16 settembre 1970.  

In conclusione ritengo la sentenza del giudice Marani non solo lesiva della libertà di critica storica garantitami dall’art. 21 della Costituzione, ma anche un intervento a gamba tesa nel dibattito storiografico. Forse non basterà a riportare indietro le lancette della ricerca storica, come auspicato dall’avv. Luigi Verzotto, ma renderà più spessa la cortina di nebbia fatta calare su determinate pagine di storia. La storiografia si nutre di confronto dialettico fra gli studiosi e quel tanto di verità – cioè di coincidenza fra res gestae e historia – che è alla portata degli stessi viene generalmente conseguito a tappe, col contributo di più soggetti, ognuno dei quali mette a disposizione degli altri le tessere del puzzle da lui reperite nel corso delle proprie ricerche. Ogni intervento censorio distorce questa dinamica e allontana la messa a fuoco degli eventi del passato. Nel mio caso la sentenza crea pure una situazione di sapore kafkiano, perché le tesi colpite dall’anatema del giudice figurano pari pari in libri legittimamente in circolazione. Forse de minimis non curat il Praetor in questione, ma intanto la sua sentenza finisce per restituire una patina di rispettabilità e credibilità alle sfacciate distorsioni dei fatti proposte da Graziano Verzotto nelle sue memorie. Non c’è dubbio che l’iniziativa legale del fratello mirasse a questo, ma perché la giustizia dovrebbe assecondare il suo gioco?

LA STORIA LA SCRIVONO GLI STORICI (E NON I FRATELLI DEI PROTAGONISTI E NEMMENO I GIUDICI) – L’altra stranezza è che le ipotesi di «complicità» di Graziano Verzotto nei delitti Mattei e De Mauro incriminate dal giudice Marani compaiono anche nelle mie pubblicazioni Il delitto Mattei, Giangiacomo Feltrinelli. Un omicidio politico e Delitti di mafia, depistaggi di Stato, da nessuno contestate nè tantomeno querelate, neppure dall’avv. Luigi Verzotto. In fondo è stato lo stesso Graziano Verzotto ad ammettere implicitamente la sua «complicità» nel delitto Mattei quando davanti al giudice di Pavia ha riconosciuto la paternità dell’ultimo, fatale viaggio del Presidente dell’ENI in terra siciliana, motivandolo con ragioni che fin da allora sapeva essere prive di fondamento. Ovviamente non è stato lui ad organizzare il complotto contro Mattei e nemmeno a piazzare sull’aereo la bomba destinata ad esplodere al momento dell’estromissione del carrello. Si è limitato a dare il suo apporto ad un disegno di morte impostato da altri dopo aver probabilmente fatto del suo meglio per convincere il padre-padrone della sua azienda a ascoltare gli inviti rivoltigli da più parti a modificare la politica energetica dell’Eni[58]. Evidentemente non ha saputo o potuto disattendere le richieste del boss mafioso incaricato dal vertice di Cosa Nostra siciliana di togliere dalla scena politica ed economica il geniale manager di Stato. Pur gratificato in termini di carriera politico-manageriale, ha pensato anche in seguito di giocare come strumento di pressione politica la carta dei segreti di Stato a sua conoscenza e mal gliene incolse.

Personalmente ho poi dedotto la corresponsabilità di Graziano nella tragica fine di Mauro De Mauro dalla sua decisione di coinvolgere l’amico giornalista in un’operazione ricattatoria disdicevole sempre e  dovunque, ma semplicemente temeraria ed estremamente rischiosa nel contesto siciliano. L’ipotesi di una sua «complicità» nel delitto De Mauro l’hanno invece configurata quanti gli hanno attribuito una sollecitazione ai boss mafiosi coinvolti nel delitto Mattei a chiudere per sempre la bocca ad un giornalista ficcanaso. Il riferimento è a collaboratori di giustizia della statura di Tommaso Buscetta e di Italia Amato e ai magistrati della terza sezione della Corte d’Assise di Palermo, di cui ho condiviso le conclusioni pur prendendo le distanze da alcune loro ricostruzioni. Se con questi presupposti non è consentito ad uno studioso  formulare ipotesi di “complicità” a carico di un politico deceduto da oltre dieci anni e chi lo fa dopo analisi e riflessioni protrattesi per oltre 20 anni finisce sanzionato in misura tale da precludergli, di fatto, ulteriori ricerche, che spazio rimane agli storici e che ci sta a fare l’art. 21 della Costituzione? Per questo solo una stroncatura da parte della comunità degli storici mi convincerà a modificare i miei convincimenti in materia.

Mentre attendo che nei prossimi gradi di giudizio i magistrati mi riconoscano l’utilizzo corretto e scrupoloso del diritto di critica storica, segnalo anche la pericolosità, oltre alla strumentalità, dell’offensiva legale promossa dall’avv. Luigi Verzotto. Col pretesto di difendere la memoria del defunto fratello costui anela a rimettere il coperchio anche sul vaso di Pandora degli intrighi e del malaffare dell’Italia degli  anni ’60 e ’70 oggetto della mia ricerca storica (i delitti Mattei e De Mauro, gli omicidi Feltrinelli e Calabresi, il fallito sequestro Verzotto, i rapporti fra Cosa Nostra e politica, il ruolo di settori degli apparati di sicurezza  dello Stato nella strategia della tensione, ecc.).

In tutt’altra direzione va l’auspicio del nostro Presidente della Repubblica.  

DALLA PARTE DEL PRESIDENTE MATTARELLA Nel comunicato emesso il 16 settembre 2020, dopo aver espresso la sua «vicinanza e solidarietà ai familiari e a quanti conobbero e lavorarono con De Mauro, apprezzandone le qualità umane e l’impegno professionale», Sergio Mattarella ha rinnovato ancora una volta il suo appello agli storici ad impegnarsi per illuminare i retroscena di quel delitto eccellente:

Ricerche e indagini non sono giunte a piena verità sulle ragioni e le responsabilità dell’efferato omicidio. I dubbi irrisolti e l’esito negativo dei procedimenti giudiziari costituiscono una sconfitta per le Istituzioni e, al tempo stesso, continuano a sollecitare l’impegno affinché si squarci il velo degli occultamenti.

Tocca agli storici, infatti, andare alla ricerca della verità quando sono scaduti i tempi della giustizia. Ritengo di aver fatto la mia parte per squarciare «il velo degli occultamenti» sia nella vicenda De Mauro, che in quella Mattei. Non pretendevo particolari riconoscimenti per le mie pubblicazioni, ma una condanna che dissesta il mio bilancio familiare e mi addita al pubblico ludibrio ha il sapore di una beffa. In effetti la sentenza del dr. Marani sembra porsi in linea di continuità con l’operato di quegli organi dello Stato che, in un passato non molto lontano, si sono mostrati incapaci di rendere giustizia ai parenti di vittime illustri e di offrire un po’ di verità ai cittadini del Belpaese. Il tempo ha probabilmente attenuato i condizionamenti che provenivano dal clima di Guerra Fredda, ma ho l’impressione che il querelante abbia tratto benefici dal fattore ambientale. Non per niente, pur di giocare la partita nella città (Padova) in cui esercita la professione da cinquant’anni, l’avv. Luigi Verzotto si è astenuto dal querelare l’editore milanese de L’infiltrato, che pure per legge dovrebbe rispondere del reato di diffamazione al pari dell’autore di un libro.   

QUALIS PATER, TALIS FILIUS? – Nel motivare poi la richiesta di un risarcimento pecuniario per la «sofferenza patita» per effetto dell’asserita diffamazione di Graziano, l’avv. Verzotto ha scritto di essere «sempre stato legato al fratello maggiore da un rapporto affettivo speciale», che avrebbe fatto di lui «quasi un secondo padre, visti i vent’anni di differenza»[59]. Il giudice Marani gli ha creduto e, ritenendo peraltro tale cifra «limitata», ha quantificato in 15.000 euro la somma idonea «a ristorare il pregiudizio patito dall’avv. Verzotto per le sofferenze ed e i patemi d’animo subiti con la pubblicazione della postfazione» incriminata[60]. Ignoro quando sia deceduto il padre biologico dei due fratelli Verzotto, ma essendosi Graziano trasferito in Sicilia nel 1947, quando Luigi di anni ne aveva cinque, e rientrato in Italia dalla latitanza nel 1991, quando Luigi di anni ne aveva 49, non si capisce in che modo abbia potuto svolgere le sue funzioni di secondo genitore. Più facile credere che, a dispetto della lontananza fisica, Graziano abbia fatto da maestro a Luigi nell’arte in cui eccelleva: quella di raccontare frottole. 

Nel designarlo erede universale del suo patrimonio, lasciando a bocca asciutta gli altri coeredi, Graziano ha anche implicitamente affidato al fratello avvocato il compito di tutelare la sua memoria dopo la propria dipartita. Luigi ha preso molto sul serio questo incarico, querelando (con alterno successo) una caterva di giornalisti, storici, cineasti e giudici. Non c’è dubbio che la sentenza del dr. Marani gli abbia consentito di segnare un punto a proprio favore.   

Mentre ringrazio gli amici dell’ANPI di Padova[61] e dell’ISTRESCO di Treviso[62] per la solidarietà espressami, mi auguro che anche a Venezia, come nella Berlino dei tempi di Federico il Grande, ci siano magistrati capaci di smascherare la montatura leguleica che ha reso possibile una mia condanna per diffamazione di quell’onorato esponente politico e specchio di preclare virtù civiche, che risponde al nome di Graziano Verzotto. 

Egidio Ceccato                             Camposampiero 28 ottobre 2020 

               (postfazione aggiornata in data 31 gennaio 2021)



[1] Motivazioni delle sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo in data 10 giugno 2011, a firma del presidente Giancarlo Trizzino e del giudice estensore Angelo Pellino, p. 2136.

[2] Ivi, p. 2087.

[3] P. De Lazzari, Storia del Fronte della Gioventù, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 175.

[4] Relazione del prefetto di Padova, Settimana 28 ottobre-3novembre 1946, in ACS (Archivio centrale di Stato di Roma), Ministero dell’Interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, Direzione affari generali 1944-46, sez. I, b. 32, Relazione del prefetti 1946.

[5] Camera dei Deputati VI legislatura, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. Relazione conclusiva. Relatore Carraro, Doc. XXIII n. 2 (d’ora in avanti “Relazione Carraro”). Tipografia del Senato, Roma li 4 febbraio 1976,  p. 213.

[6] Lettera della dirigenza della FIVL al signor  Graziano Verzotto c/o Democrazia Cristiana di Catania, Milano 10 novembre 1948 (in copia presso l’autore).

[7] Deposizione di Graziano Verzotto davanti all’autorità giudiziaria di Palermo, Palermo 26 maggio 1971.

[8] Deposizione di Restelli Giuseppe davanti al p.m. Vincenzo Calia, Pavia 30 gennaio 1995.

[9] Deposizione di Verzotto Graziano davanti al p.m. Vincenzo Calia, Pavia 30 giugno 1998.

[10] Relazione Carraro, cit. 213.

[11] Testo delle dichiarazioni del senatore Graziano Verzotto rese al consiglio di presidenza della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia il 26 marzo 1971.

[12] E. Bellavia, Sbirri e padreterni. Storia di morti e di fantasmi, di patti e ricatti, di trame e misteri. Con Franco Di Carlo ex boss dei corleonesi, Laterza, Bari, 2016, nota 25 di p. 270.

[13] E. Ceccato, Delitti di mafia, depistaggi di Stato. Gli intrecci fra mafia, estremismo fascista e istituzioni deviate nelle vicende Mattei, De Mauro, Verzotto e Dalla Chiesa, Castelvecchi, Roma, 2020, pp. 132-135.

[14] E. Ceccato, Il delitto Mattei. Complicità italiane in un’operazione segreta della Guerra Fredda, Roma, Castelvecchi, 2019, p. 171.

[15] Testo delle dichiarazioni dell’onorevole Aristide Gunnella rese al consiglio di presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia il 26 marzo 1971, in Senato della Repubblica – Camera dei Deputati Legislatura VI – Disegni di legge e relazioni – Documenti.

[16] Motivazioni delle sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo in data 10 giugno 2001, cit. p. 2076.

[17] Dichiarazioni rese da Verzotto Graziano in data 7/10/1971 davanti all’autorità giudiziaria di Palermo.

[18] Mafiapolticapentiti, La relazione del presidente Luciano Violante e le deposizioni di Antonino Calderone, Tommaso Buscetta, Leonardo Messina, Gaspare Mutolo, a cura di Orazio Barrese, Rubbettino, Messina, 1992, p. 182.

[19] Deposizione di Campelli Mario davanti al p.m. Vincenzo Calia, Pavia 28 giugno 1996.

[20] Motivazioni delle sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo in data 10 giugno 2011, cit. pp. 2074-2075.

[21] E. Ceccato, Il delitto Mattei, cit. pp. 164-165.

[22] Deposizione del dr. Ugo Saito davanti al p.m. Vincenzo Calia, Palermo 19 febbraio 1998.

Ovviamente la sua inopinata salvezza aveva fortemente colpito i magistrati inquirenti (“Ci chiedevamo, inoltre, perché Peppino D’Angelo, presidente della regione Sicilia, si era all’ultimo momento rifiutato di salire con Mattei sull’aereo che poi precipitò a Bascapé”) , come confermato dall’ex giudice Ugo Saito nella citata deposizione.

[23] E’ “uno degli eroi dei nostri tempi”. La figura e l’opera di Mattei rievocate all’assemblea regionale. Il discorso commemorativo di Stagno D’Alcontres. D’Angelo ricorda l’ultima giornata vissuta dal presidente dell’Eni in Sicilia, «La Sicilia», 30 novembre 1962.

Queste le parole del presidente D’Angelo: «Eravamo andati  a Gela perché egli lo aveva voluto durante il nostro ultimo  incon­tro  alla presidenza della regione affinché ci  rendessimo  conto dei  passi  avanti che quell’impianto aveva fatto da  un  anno  a questa parte, dall’ultima visita del novembre scorso ad oggi. E a chi pensava che questa visita dovesse ritardarsi, egli con parola pressante  disse che voleva che avvenisse presto perché  ciò  che era  accaduto a Gela voleva che fosse a conoscenza non solo  sua, ma  fosse  soprattutto a conoscenza del governo della  regione  e delle popolazioni siciliane. Egli diceva: “Dovete venire a vedere perché voglio che constatiate con i vostri occhi che io ho mante­nuto  l’impegno  assunto di un anno fa, perché io  sono  un  uomo restio a prendere impegni, ma quando li prendo intendo  mantener­li.  Voglio che voi veniate perché dovete riconoscere che  io  ha fatto più di ciò che mi ero impegnato a fare. Quando avrete visto queste  cose, dovrete credermi più di quanto non abbiate  creduto nel  passato”.  Quest’ultima  affermazione si  riferiva  a  delle recenti polemiche che avevano tormentato la pubblica opinione».

[24] Deposizione di Verzotto Graziano davanti al p.m. Vincenzo Calia, Pavia Pavia 8 novembre 1995

[25] Ibidem.

[26] Deposizione di Verzotto Graziano davanti al p.m. Vincenzo Calia, Pavia 4 settembre 1998.

[27] E. Ceccato, Il delitto Mattei, cit. pp. 181-182.

[28] Motivazioni della sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo, cit. p. 2097.

[29] E. Ceccato, Il delitto Mattei, cit. p. 150.

[30] Ivi, p. 154.

[31] Ivi, p. 156.

[32] Ibidem.

[33] Motivazioni della sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo, cit. pp. 2097-2098.

[34] E. Ceccato, Delitti di mafia, cit. p. 14.

[35] Motivazioni della sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo, cit. p. 70.

[36] Ivi, p. 75-76.

[37] Deposizione di Tommaso Buscetta davanti ai giudici G. Falcone e I. De Francisci, uffici D.E.A. di New York, 20 novembre 1986.

[38] Deposizione di Tommaso Buscetta davanti al dr. G. Falcone, Embassy suites (New Jersey – USA), 1 febbraio 1988. 

[39] Motivazioni della sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo cit. p. 79.

[40] E. Ceccato, Delitti di mafia, cit. pp. 81-85.

[41] Motivazioni della sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo, cit. pp. 2056-2057.

[42] Curriculum vitae. Dattiloscritto di n. 5 pagine consegnato da Graziano Verzotto all’autore nel 1975.

[43] Motivazioni della sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo, cit.  p. 1999.

[44] Motivazioni della sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo, cit. p. 2056.

[45] P. Fagone, Oggi il dibattito sui deposito dell’EMS presso le banche di Sindona e sugli “interessi neri“, «Giornale di Sicilia», 5 febbraio 1975.

[46] E. Ceccato, Delitti di mafia, cit. nota 25 a p. 117.

[47] Relazione Carraro, cit. p. 212.

[48] Ivi, p. 213.

[49] ivi, p. 210.

[50] Ivi, p. 213.

[51] Cfr. E. Scalfari – G. Turani, Razza padrona. Storia della borghesia di Stato, Feltrinelli, Milano, 1974.

[52] Cfr. G.F. Dubois – C. Sonzogno, L’impero della chimica, Newton Compton, Roma, 1990, passim e pp. 117-120.

[53] E. Ceccato, Delitti di mafia, cit. p. 119.

[54] Riepilogo degli accertamenti eseguiti e riguardanti il sequestro del giornalista Mauro De Mauro, avvenuto a Palermo il 16 settembre 1970, Pavia s.d., a cura del mar. capo dei CC Enrico G. Guastini.   

[55] Motivazioni della sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Assise di Palermo, cit. p. 23.

[56] Ivi, pp. 2056-2057.

[57] Atto di citazione d’appello, a cura degli avv.ti Anna Di Lorenzo e Alberto Trinca, Padova 18 agosto 2020.

[58] E. Ceccato, Delitti di mafia, cit. p. 16.

[59] Atto di citazione, a cura degli avv.ti Giovanna Verzotto e Giorgio Verzotto, Padova 27 dicembre 2017.

[60] Sentenza n. 967/2020 del Tribunale di Padova pubblicata il 2/07/2020 RG. n. 47/2020 del 2/07/ 2020.

[61] Cfr.  http://www.istresco.org/notizie/584-comunicato-stampa-processo-ad-egidio-ceccato.html

[62] Cfr. https://anpipadova.wordpress.com/2020/11/18/comunicato-stampa-di-solidarieta-a-egidio-ceccato-per-le-sue-ricerche-sulla-resistenza-nellalta-padovana/ 

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