L’accordo stipulato dal partigiano Graziano Verzotto coi nazifascisti padovani nel dicembre del 1944

A patti col nemico – L’ex comandante partigiano Graziano Verzotto (1923-2010) non ha mai disconosciuto la paternità dell’accordo raggiunto coi nazifascisti padovani nel dicembre del 1944, ma fin dal primo momento ha cercato di presentarlo come un compromesso a sfondo umanitario, stipulato addirittura «a condizioni di parità fra le due parti» e quindi nient’affatto «vergognoso» per chi militava nelle file della resistenza[1]. Nel diario storico della sua brigata (datato 15 marzo 1946), come del resto nelle sue memorie (2008), l’ha spacciato per una «finta resa», imposta dalla «situazione disperata» in cui nell’autunno del 1944 era venuta a trovarsi la formazione garibaldina (il VI battaglione “Sparviero”) da lui guidata e dall’esigenza di «salvare gli uomini migliori, il maggior numero possibile di armi […] e la zona da rappresaglie tremende»[2]. Un elemento di novità compariva invece nella relazione firmata dal suo collaboratore Stefano Perin, secondo il quale i «patti con i nemici», sempre imposti dall’esigenza di «salvare gli arrestati, le case e l’organizzazione» e seguiti dalla «scarcerazione di tutti» gli arrestati, dal «rientro in famiglia di tutti i fuggiaschi» e dal «salvataggio di quasi tutte le armi», avevano fornito a Verzotto la «possibilità di riorganizzare in segreto» una nuova formazione patriottica[3]. Poiché la III brigata “Damiano Chiesa”, emanazione della I brigata “D. Chiesa” di Cittadella, fu effettivamente costituita nel gennaio del 1945, cioè durante la fase di tregua stipulata con gli avversari politici, l’ipotesi che questa operazione abbia usufruito di una certa accondiscendenza da parte dei nazifascisti, interessati alla prevalenza dei cattolici sui comunisti, non appare palesemente infondata.

Si dà però il caso che la successiva violazione di questi accordi da parte di Verzotto abbia scatenato l’ira dei nemici e aggravato, per quello scherzo del destino che viene chiamato “eterogenesi dei fini”, il bilancio delle vittime dell’eccidio nazifascista di S. Giustina in Colle del 27 aprile 1945[4]. Di qui l’esigenza di chiarire meglio la natura e la portata dell’insolito compromesso. Ancorché tassativamente vietate dalla dirigenza partigiana, le transazioni col nemico motivate dall’esigenza di salvare vite umane meritano tutta la comprensione dei posteri, ma nel dicembre del 1944 Verzotto non agì unicamente per uno stato di necessità. Infatti alla sua identificazione con l’inafferrabile “Bartali” (il più celebre dei suoi nomi di battaglia) e all’ubicazione della sua abitazione i nazifascisti arrivarono non certo grazie alla loro abilità investigativa o ad una fortunata azione di intelligence, ma per effetto della delazione di don Ugo Orso, il cappellano militare della famigerata banda Carità. Questi, che operava in piena sintonia col vescovo di Padova, il filofascista mons. Carlo Agostini, originario di S. Martino di Lupari, ha apertamente rivendicato la paternità dell’operazione nella testimonianza rilasciata allo studioso cattolico Giorgio Emilio Fantelli, autore del 1965 del libro intitolato La resistenza dei cattolici nel padovano. In quella sede costui ha ricondotto la sua iniziativa a motivazioni esplicitamente anti partigiane («al nord della provincia operava “Bartali” – Graziano Verzotto – con molto successo e le brigate nere di Allegro avevano molto filo da torcere così che la zona era tutta in subbuglio tra rastrellamenti e rappresaglie»), rimarcandone gli effetti tranquillizzanti sul territorio («contemporaneamente cessarono le malversazioni al nord della provincia e la zona si pacificò. Almeno per poco tempo»). Ha pure precisato di aver richiesto, nei contatti preliminari avviati con Alfredo Allegro, vice federale e comandante di fatto della brigata nera padovana “Begon”, una sostanziale impunità per il capo partigiano e per i suoi familiari («gli avrebbe presentato “Bartali”, ma lui doveva promettere di lasciarlo libero dopo che “Bartali” avesse consegnato le armi e giurato di ritirarsi dalla lotta»). A suo giudizio quest’ultima clausola sarebbe stata sostanzialmente rispettata («Così infatti avvenne»)[5].

Ovviamente don Orso operava in sintonia con autorevoli esponenti del clero diocesano come il cancelliere vescovile don Mario Zanchin, compaesano di Verzotto e da tempo a conoscenza della sua attività cospirativa, di don Ireneo Danieli, già professore di Graziano in seminario[6], e di alcuni dirigenti della Democrazia cristiana padovana e locale, primo fra tutti l’ex sindaco di Cittadella e futuro prefetto di Padova Gavino Sabadin[7]. Il risultato fu che il 9 dicembre 1944 i fascisti irruppero una prima volta nell’abitazione di Verzotto prendendo in ostaggio alcuni suoi familiari. Una decina di giorni dopo Graziano, sottoposto a fortissime pressioni ambientali, accettò di presentarsi ai comandi nazifascisti. Esponenti del clero padovano presenziarono, in qualità di garanti, ad almeno due dei tre incontri in cui si articolò la trattativa. In una lettera inviata al comando militare provinciale di Padova in data 15 gennaio 1945 Verzotto ha scritto di aver incontrato Alfredo Allegro, numero due della nomenclatura fascista  padovana, il 20 dicembre 1944 alla presenza dello stesso don Ugo Orso e di don Mario Zanchin i quali, per sua stessa ammissione, dapprima «funsero da intermediari e da testimoni»[8], cioè da propiziatori e garanti dell’accordo, e poi continuarono a fare da tramite per gli «inviti» e gli «ordini» successivamente indirizzatigli da Alfredo Allegro[9]. Anche se nel 1997 don Zanchin, divenuto nel frattempo vescovo emerito di Fidenza, continuava a negare di aver avuto un qualsivoglia ruolo nella trattativa[10], nel 1995 l’ex partigiano camposampierese Gino Pierobon ha ribadito la parte da lui giocata nel favorire l’accordo tra Verzotto e i nazifascisti padovani. Tra i politici patrocinatori dell’accordo egli ha compreso anche il futuro senatore democristiano Mario Saggin[11]. Di un «intervento mediatorio» di don Zanchin nello «accordo stipulato» da Verzotto coi fascisti padovani ha parlato pure Giuseppe Ruffato, sovraintendente della III brigata “D. Chiesa” in una pubblicazione edita nel 1985[12]. Stando alla testimonianza del comandante della compagnia garibaldina di Campodarsego Amerigo Torresin, subito dopo Verzotto incontrò a Camposampiero il comandante della locale brigata nera Tommaso Calvi «in compagnia del fu cappellano di S. Giustina in Colle» don Giuseppe Giacomelli e del «parroco di Camposampiero» don Antonio Dal Santo[13]. Il 21 dicembre Verzotto formalizzò l’accordo anche col tenente Mayer, l’ufficiale della SD (Sicherheitsdienst) tedesca responsabile dell’ordine pubblico per l’alta padovana, incontrato in villa Camerini, a Piazzola sul Brenta.    

Le aperture dei fascisti all’ala moderata della resistenza – Effettivamente nel dicembre del 1944, complice l’avanzare della cattiva stagione, le formazioni partigiane attraversarono un momento difficilissimo in tutto il Veneto e la provincia di Padova non fece eccezioni. Il carattere di assoluta necessità dell’accordo è stato però smentito dallo stesso Verzotto quando in una lettera inviato al Comando militare e al CLN di Padova il 15 gennaio 1945 ha ammesso l’esistenza di un’alternativa («si sarebbe potuto smobilitare a nascondersi. Questo è vero. Lo volevo fare»)[14]. Del resto la giustificazione da lui addotta per la scelta della capitolazione («però non mi sono sentito di squagliarmela e mettermi in salvo in qualche modo abbandonando al terrorismo nemico i più fedeli e generosi collaboratori)[15] convince solo in parte. Rimasero infatti esclusi dall’amnistia i suoi compagni più esposti o più vicini al partito comunista. Fu il caso di Bruno Ballan («che riuscì a sfuggire alla fucilazione con un atto di violenza mentre già era avviato al luogo del supplizio»), di Gamba Orlando (che «venne rilasciato dopo lungo tempo fisicamente distrutto in seguito alle sevizie patite”)[16] e di «alcuni Polacchi e Slavi» precedentemente nascosti da Verzotto «presso le paludi di Loreggia»[17]. Catturati e torturati a Piazzola sul Brenta, questi ultimi sono poi «scomparsi senza che nulla si sapesse di loro», probabilmente perché soppressi dai tedeschi[18]. Presente all’incontro di Piazzola e predestinato alla fucilazione, in una testimonianza del 1997 Bruno Ballan si è a lungo soffermato sui rapporti di cordiale cameratismo stabiliti da Verzotto col ten. Mayer («si davano del tu» e «mangiavano e bevevano birra» davanti a lui), oltre che sull’assoluta indifferenza del suo ex comandante per la sua sorte[19].

Del tutto evidente, quindi, che le difficoltà logistiche del tardo autunno 1944 fecero da detonatore ad un processo di avvicinamento fra l’ala moderata della resistenza e quella della Repubblica Sociale di Mussolini in atto da tempo e che vanta numerosi precedenti nel Veneto bianco e nel vicino Friuli, alcuni dei quali ricostruiti dall’autore nel volume Patrioti contro partigiani, edito nel 2004. Più recentemente sono emersi casi analoghi in Lombardia ed in altre regioni italiane. Ad esempio, lo studioso bresciano Lodovico Galli ha dimostrato che il «salvataggio» di Enrico Mattei, massimo rappresentante della resistenza cattolica nel Nord Italia, e dell’intero «stato maggiore della futura Democrazia cristiana lombarda», tutti soggetti individuati e catturati dai nazifascisti, fu opera dell’ala «moderata» del fascismo della RSI, «che spingeva per mantenere un atteggiamento di “conciliazione nazionale”, probabilmente in previsione della fine della guerra». Anche in questi casi si rivelò decisiva l’intermediazione dei sacerdoti, primo fra tutti di mons. «Bicchierai, longa manus del cardinale Ildefonso Schuster per questo genere di “contatti umanitari”» coi nazifascisti. Molti dei dirigenti cattolici catturati assieme a Mattei vennero liberati «alla spicciolata», a partire dall’ottobre del 1944, per espresso intervento del gen. Montagna, che ottenne dal Duce di «far edulcorare il rapporto di polizia» a loro carico[20]. La stessa politica era caldeggiata dalle componenti della resistenza moderata e dal clero pacelliano già sostenitori del fascismo, che puntavano ad una fuoruscita il più indolore possibile dal ventennio mussoliniano e dalla guerra di aggressione perduta. In questo senso la benemerita “funzione benedettina” attribuita alla Chiesa cattolica dallo storico trevigiano Ernesto Brunetta si presta ad essere interpretata anche come “funzione badogliana”, finalizzata com’era a mettere una pietra sopra il ventennio precedente. Lo stesso Mussolini si dichiarò disponibile (14 febbraio 1945) a riservare un trattamento di riguardo ai «gruppi cattolici», che «possono efficacemente contribuire all’opera di distensione», ragion per cui, in risposta ad una precedente missiva (12 febbraio 1945) del gen. Mantegna, si era impegnato ad «esaminare in senso benevolo la faccenda dei demo-cristiani di Como, quantunque sieno stati subdoli nemici, veri topi nel formaggio dell’antifascismo, come già altre volte li definii»[21]. E’ probabile che anche la liberazione dell’on. Pietro Mentasti (Commissario della DC dell’Alta Italia e deus ex machina del passaggio delle azioni della società editrice de «Il Gazzettino» di Venezia dagli industriali compromessisi col fascismo alla DC veneta) siano riconducibile a trattative sotterranee di questo genere.

Nei diversi colloqui avuti con l’autore nel corso del 1995 Graziano Verzotto ha ricondotto l’iniziativa di don Orso alla regia politica del leader democristiano cittadellese Gavino Sabadin, che da mesi cercava di convincerlo a lasciare il movimento garibaldino per mettersi coi suoi uomini sotto la protezione del suo partito, in modo da «garantire il nord della provincia alla democrazia cristiana e proteggerlo dalle formazioni rosse»[22]. Già nel diario storico della brigata aveva espressamente ricondotto la costituzione della sua nuova brigata alla «iniziativa dell’avv. Gavino Sabadin di Cittadella»[23]. Giuseppe Ruffato ha confermato il pressing di Sabadin, retrodatando i primi approcci alla sua persona al settembre del 1944, quando «in casa del podestà [recte: commissario podestarile] Evanzio Fiscon» di Santa Giustina in Colle venne da questi «sollecitato a procedere alla costituzione di quello che sarebbe stato il futuro organo amministrativo del Comune per averlo a disposizione a fine ostilità»[24]. Verzotto ha aggiunto di aver resistito per alcuni mesi alle sollecitazioni di Sabadin per senso di cameratismo e spirito di lealtà verso i garibaldini, mentre la proposta sarebbe stata subito ben vista da gran parte dei suoi uomini di osservanza cattolica. Proprio l’estemporanea iniziativa di don Orso avrebbe dunque sbloccato l’impasse costringendo Verzotto ad operare una scelta a lungo dilazionata. Da notare che anche Ermenegildo (Ermes) Farina, complice di Sabadin in tante manovre anti garibaldine, ebbe modo di soggiornare sul finire del 1944 a S. Giustina in Colle, ospite dello zio Evanzio Fiscon, commissario podestarile[25]. Pertanto l’adesione di Verzotto al compromesso coi nazifascisti si spiega, oltre che colle pressioni esercitate su di lui e sui suoi familiari, con valutazioni di carattere politico. Nella citata lettera del 15 gennaio 1945 egli stesso si è soffermato sul disagio avvertito da molti dei suoi uomini per il fatto di militare in una formazione a guida comunista «dopo i fatti del Belgio e della Grecia e conseguente discorso chiarificatore di Churchill», tutti eventi riferibili al dicembre 1944. A partire da quel momento «tutti i democristiani e molti apolitici del battaglione» si sarebbero sentiti «disgustati di lavorare nella Brigata Garibaldi temendo di fare il gioco del comunismo in Italia», nonostante egli si sforzasse di «[r]assicurare i suoi sostenitori che nulla c’era di cambiato e nulla si doveva temere». Ovviamente anche in quella missiva egli considerava «vantaggioso» per la causa della cospirazione l’accordo raggiunto coi nazifascisti[26].  

L’operazione di traghettamento di Verzotto dalla resistenza garibaldina a quella cattolica s’inserisce dunque a pieno titolo nel processo di involuzione badogliana della Resistenza veneta ricostruito dall’autore nel volume Patrioti contro partigiani.[27] Nell’autunno del 1944, quando fu chiaro che la guerra sarebbe continuata fino alla primavera successiva e l’intensificarsi di guerriglia partigiana e di repressione nazifascista avrebbe creato risentimenti a non finire, presupposti per una sanguinosa resa dei conti a ridosso della liberazione, si realizzò una oggettiva convergenza di interessi fra l’ala meno intransigente della RSI ed un variegato fronte conservatore, comprendente i ceti saliti sul carro di Mussolini e la Chiesa di Papa Pacelli, timorosa che il crollo della diga fascista aprisse qualche spazio ai comunisti anche nel Veneto bianco. Tutti costoro scommettevano da una parte su un’imminente rottura della solidarietà ciellenistica a livello nazionale e su quella fra URSS e blocco occidentale, anticipando la tendenza a riciclare i cascami del fascismo nella diga anticomunista manifestatasi appieno negli anni della Guerra fredda e della “strategia della tensione” (1969-1974).

Portata politica degli accordi del dicembre 1944 – In un suo manoscritto del 1995 Verzotto ha espressamente collegato «l’accordo con i Tedeschi e la costituzione della Brigata Damiano Chiesa 3a» alla «rottura con le Brigate Garibaldi»[28]. In una successiva intervista al bibliotecario del suo paese Enzo Ramazzina ha ricondotto il compromesso coi nazifascisti all’esigenza di salvare i suoi uomini e, «soprattutto», a quella di «dare vita ad una nuova formazione partigiana d’ispirazione cattolica»[29]. Perfettamente legittima la sua aspirazione a finire l’esperienza cospirativa in un’organizzazione resistenziale ideologicamente più vicina al mondo cattolico, ma perché passare attraverso un accordo coi nazifascisti? Pregnanza politica e lati ambigui del compromesso stipulato fra il capo dei patrioti camposampieresi e i nazifascisti padovani si possono ricavare da tutta una serie di elementi:

a) Il doppio movente del suo accordo coi nazifascisti Verzotto ebbe modo di riconoscerlo a caldo, cioè in un incontro avuto negli ultimi giorni del «mese di dicembre» del 1944 con Nicola Biheller, un ebreo cecoslovacco interprete dei tedeschi e contemporaneamente impegnato nel salvataggio di piloti alleati, nascosto in un secondo tempo dal parroco di Rustega don Leonardi presso una famiglia del paese. Davanti al suo interlocutore egli giustificò il fatto di essersi dovuto «presentare cioè parlamentare» coi nemici con uno stato di necessità, cioè perché «la pelle è numero uno» e in quanto era stato «tradito» dalla sua «staffetta», per cui «la Brigata nera (Allegro) » e anche «la SS tedesca» erano venute a conoscenza del luogo in cui si nascondeva. Contemporaneamente sostenne di aver «fatto quello che ha fatto col consenso dei Superiori»[30], cioè dei dirigenti della Democrazia cristiana padovana.

b) Nel dicembre i fascisti non solo garantirono a Verzotto impunità e immunità, ma lo aiutarono anche a regolarizzare la sua posizione mediante un’iscrizione alla Facoltà di lingue dell’Università di Venezia.  

c) Assieme alla libertà di circolazione Verzotto ottenne dai fascisti anche un regolare porto d’armi, che ne faceva un oggettivo tutore dell’ordine pubblico sotto le insegne della Repubblica Sociale Italiana. Tale circostanza stupì allora molti giovani di Camposampiero, tra cui il futuro politico ed amministratore democristiano Antonio Prezioso, che per primo ha dato questa informazione all’autore più di una ventina di anni fa. Contestato dai vertici della brigata Garibaldi, il «permesso per porto-d’arma»[31] è stato confermato dallo stesso Verzotto in una deposizione del 16 novembre 1945, quando ne ha fornito una giustificazione di comodo («richiesto a che titolo abbia ottenuto dalle brigate nere il permesso di tenere la pistola e l’autorizzazione a portarla, il Bartali dichiara che ciò che ciò fu fatto perché la tregua intercorsa riconosceva l’onore delle armi»)[32].  

d) Dopo il 20 dicembre 1944 Verzotto frequentò con una certa assiduità le sedi della RSI, come testimoniato dal colonnello dei carabinieri Marcello Bassano, che a Padova praticava il doppio gioco («il Verzotto-Bartali veniva parecchie volte in brigata nera ed aveva amicizia con il comandante Calvi. Una volta dormì anche in brigata nera nella camera di Calvi. Mangiò per due o tre volte in brigata. Andò qualche volta a Padova»)[33] e come riconosciuto dall’interessato[34]

e) Nelle settimane successive all’accordo Verzotto godette di una straordinaria agibilità logistica e politica, tanto che il 15 gennaio 1945 – ad appena tre settimane dall’accordo coi nazifascisti – era in grado di comunicare al comando militare partigiano di Padova di aver costituito la «3a Brigata Damiamo Chiesa […] appoggiata dal Partito Democristiano», che «abbraccia già sei Comuni e che conta trecento uomini dei quali cento armati»[35]. Il breve lasso di tempo trascorso induce a credere che il progetto fosse stato impostato ben prima del 20 dicembre 1944. Anche in un altro documento della seconda metà del 1945 Verzotto ha ammesso di aver ricostituito la nuova formazione – rimasta sostanzialmente su posizioni attendiste e caratterizzata più da iniziative ostili alla componente comunista della resistenza che ai nazifascisti – «pochi giorni dopo il compromesso» stipulato col nemico ufficiale[36].

f) Nell’opera di reclutamento di giovani per la sua nuova formazione partigiana Verzotto usufruì dell’attivo sostegno di alcuni sacerdoti locali, fra cui il parroco di S. Marco di Camposampiero don Antonio Dal Santo, che gli affiancò il maestro Vito Filippetto. Secondo Gino Pierobon, quest’ultimo era da tempo in collegamento con Bepi Armano di Cittadella[37], comandante della I brigata “D. Chiesa” e futuro genero di Sabadin. In quest’opera di reclutamento di giovani cattolici Pierobon ha inserito anche Giulio Biasibetti[38]. Nella testimonianza di Bruno Bordin, un giovane della parrocchia di S. Marco, le riunioni patrocinate da don Antonio Dal Santo non erano precluse a simpatizzanti fascisti[39]. Il signor Luigi Emilio Gherlenda di Camposampiero, allora giovanissimo e fervente nazionalista, ha ricordato di essere stato personalmente sollecitato da Verzotto ad entrare nella sua formazione, ma di aver alla fine optato per l’arruolamento nella X Mas del principe J. Valerio Borghese.

g) L’avvenuta costituzione della III brigata “D. Chiesa” non pregiudicò affatto i rapporti di Verzotto coi fascisti padovani. Catturato per errore il 23 febbraio 1945 da elementi della brigata nera di Campodarsego, all’oscuro degli accordi di dicembre, egli fu nuovamente rimesso in libertà da Alfredo Allegro con l’impegno ad assumere «il comando di un battaglione di lavoratori alle sue dipendenze»[40]. Anche questa volta l’interessato ha ipotizzato, nelle sue memorie, un «intervento a [su]o favore della curia vescovile» di Padova[41]. Di analoga benevolenza beneficiò, in quegli stessi giorni, il suo collaboratore Giuseppe Ruffato, malgrado che anche al nuovo comandante della brigata nera di Camposampiero Vilfredo Allegro, figlio di Alfredo, fosse «arrivata notizia della presenza della nuova formazione» patriottica costituita da Verzotto[42]. Poiché unità miste di fascisti e patrioti furono patrocinate pure in provincia di Vicenza ed anche il fascista bassanese Alfredo Perillo propose al prof. Primo Visentin, l’esponente più illustre della resistenza a nord di Castelfranco Veneto più noto col nome di battaglia di “Masaccio”, di unire le rispettive forze nella fase finale della guerra, tutto induce a credere che fascisti e clero padovano considerassero la nuova formazione di Verzotto come una specie di guardia civica politicamente mista, deputata a vigilare sull’ordine pubblico nella delicata fase di transizione successiva alla partenza dei tedeschi e al crollo della RSI. Sia Verzotto che Duilio Munaro – il partigiano comunista di S. Giorgio delle Pertiche ferocemente avversato dal parroco del suo paese e condannato nel dopoguerra per un delitto probabilmente mai commesso – hanno confermato lo spirito di rivalità insorto fra patrioti cattolici e partigiani garibaldini, nonché la corsa ad occupare per primi le caserme dei carabinieri presenti nel territorio, in modo da diventare a guerra finita i tutori ufficiali dell’ordine pubblico[43]. Gli uni anche per permettere operazioni di giustizia sommaria a danno dei fascisti e gli altri per impedirle o, meglio, prevenirle. 

La cessione ai fascisti di una radio e di un aviolancio alleato – In epoca cospirativa la consegna di armi al nemico era considerata una infrazione di estrema gravità. Ovviamente Verzotto ha sempre sostenuto di aver consegnato ai fascisti «soltanto alcune armi scassate» o vecchi «moschetti fuori uso». In realtà nella memoria difensiva datata 6 giugno del 1945 Nicola Biheller – un ebreo ungherese in collegamento radio con gli anglo-americani nascosto presso una famiglia di Rustega di Camposampiero[44] – lo ha espressamente accusato di avere, «dietro consiglio di [Vito] Filipetto» e «per mezzo della staffetta Dino Targhetta di Camposampiero», «consegnato» ai fascisti di Alfredo Allegro anche la «radio trasmittente» precedentemente affidata alla sua custodia. A suo tempo egli l’aveva ricevuta «in consegna da due prigionieri» alleati «evasi (neozelandesi) i quali sono stati catturati a S. Eufemia» [di Borgoricco]. L’aveva in seguito utilizzata per organizzare, in collaborazione cogli Alleati, operazioni di salvataggio di prigionieri angloamericani o di equipaggi di aerei abbattuti dalla contraerea tedesca. Si era deciso a consegnarla a Verzotto perché non trovava «più tracce della Missione Bianchi 276», alla quale era stato aggregato, e «l’esistenza della radio nella casa» della famiglia Cargnin di Rustega, che lo ospitava, era diventata fonte di pericolo per tutti. Una volta saputo che Verzotto aveva consegnato la radio ai fascisti Biheller perse ogni fiducia in lui, rifiutandosi di consegnargli una partita di armi ed esplosivo – «50-60 kg. di plastico, alcune mine anticarro, 3 fucili automatici inglesi (sten)» – nella disponibilità del partigiano di Massanzago Ferruccio Quaresimin e precedentemente richiestagli da Graziano tramite «Vito Filipetto», il maestro di S. Marco di Camposampiero poi ucciso a S. Giustina. «Non voglio mettermi in contatto con Bartali perché non mi fido di lui» ha scritto in una memoria stesa in data 6 giugno 1945 per respingere le accuse di appropriazione indebita di denaro mossegli «in spalla [= alle spalle] dalle persone i quali sono stati nell’organizzazione dei patrioti soltanto negli ultimi mesi o giorni»[45]. Chiaro il riferimento a formazioni come la III brigata “D. Chiesa” di Verzotto e agli intrighi del neo prefetto di Padova Gavino Sabadin contro gli ex cospiratori di aree politiche diverse dalla sua.

In compenso lo stesso Verzotto ha ammesso, nel diario storico della brigata, che l’accordo con le brigate nere e i tedeschi determinò una stasi pressoché totale della guerriglia partigiana nel camposampierese. Ha però addebitato la difficoltà per la sua nuova formazione di «toccare nuovamente nel vivo i nemici fascisti e tedeschi che infestavano la nostra zona con numerosi presidi» alla scarsità di armi in suo possesso, ricondotta al fatto di non aver «potuto ricevere» un aviolancio calendarizzato per il «23 febbraio 1945» a causa dell’intervenuta sua cattura e «conseguenti altre ricerche e indagini fatte in zona dai fascisti»[46]. Con questo giro di parole ha provato a nascondere un episodio di notevole gravità, perché l’aviolancio procuratogli dalla missione militare badogliana “Barograph”, operante tra Padova e Treviso e più nota come “MRS”,  non venne affatto annullato dopo la sua cattura ad opera delle brigata nera di Campodarsego, ma tutto il materiale paracadutato cadde in mano fascista. Secondo un ex brigatista nero di Camposampiero, «ad un certo punto» Verzotto avrebbe rivelato «dove e quando l’aviazione alleata avrebbe effettuato un lancio di rifornimento alla “Damiano Chiesa”». Così «la notte indicata […] in località Le Mandrie, vicino a Santa Giustina in Colle, ad accogliere i contenitori che piovevano dal cielo pieni di ogni ben di Dio» si presentarono i fascisti «anziché i suoi partigiani»[47]. Poiché per ottenere un lancio, oltre ad inviare per radio un messaggio di conferma (quello specifico per l’aviolancio del 23 febbraio suonava «Per Ferruccio: siamo vivi»), bisognava effettuare le segnalazioni luminose concordate sull’area concordata, tutto lascia credere che il vecchio fascista abbia raccontato la verità. Dal momento che lo stesso Verzotto ha lasciato scritto che qualche giorno dopo il 23 febbraio egli fu lasciato in libertà da Alfredo Allegro nonostante alcuni «partigiani catturati in quei giorni avessero apertamente dichiarato e deposto per iscritto» che egli aveva «ripresa l’attività» cospirativa[48], viene da pensare che proprio quel gesto di delazione abbia propiziato il suo rilascio. In quello stesso lasso di tempo furono registrati nel Veneto altri episodi analoghi, tanto che Alleati scoprirono con raccapriccio che in provincia di Treviso molti fascisti giravano armati di mitra e fucili mitragliatori di provenienza anglo-americana[49]. Tutto induce ad ipotizzare compromessi su larga scala fra “MRS” e nazifascisti dopo il fermo (febbraio 1945) di Orlando Bettarel, il responsabile della missione militare badogliana nella zona di Treviso, e la cattura di due delle tre radio trasmittenti in suo possesso[50]. Queste ed altre vicende poco edificanti sono state ovviamente occultate dal cittadellese Elio Rocco nel volume agiografico dato alle stampe nel 1998, che ricostruisce con molte autocensure l’operato nel Veneto della controversa missione militare di stampo badogliano[51].

Il processo per tradimento – Nella citata lettera del 15 gennaio 1945, rivendicando il merito di avere da una parte «beffato i nazifascisti» e dall’altra «ridato tranquillità alle [su]e zone»[52], Verzotto ha indirettamente ammesso di aver assecondato gli intenti del nemico, che miravano appunto a far cessare del tutto o, quanto meno, a ridurre significativamente la guerriglia partigiana. E’ infatti risaputo che gli Alleati si erano decisi ad appoggiare i partigiani italiani, dopo le iniziali titubanze, quando si accorsero che costoro con le loro imboscate disturbavano seriamente lo sforzo bellico dei nazifascisti, costringendoli a distoglierli molti uomini dal fronte per impiegarli nel controllo del territorio e nella protezione di convogli e impianti produttivi. Non avevano dunque torto i vertici della brigata Garibaldi quando, saputo dell’accordo di Verzotto coi nazifascisti, lo accusarono di «alto tradimento e di collaborazione col nemico»[53]. Rinunciarono però ad applicare la «condanna a morte per Bartali sotto l’accusa di tradimento»[54], pretesa dai più intransigenti di loro (come Timante Ranzato, il successore di Verzotto al vertice del VI btg. “Sparviero”, rimasto ucciso in circostanze oscure a Pieve di Curtarolo il 27 aprile 1945)[55] «per non provocare scissioni in seno al Movimento di Liberazione Nazionale»[56], cioè per non compromettere i buoni rapporti stabiliti coi vertici della Democrazia Cristiana padovana[57]. Ripresero le loro accuse contro Verzotto solo nel luglio del 1945, dopo aver scoperto che, nei panni di tenente della polizia ausiliaria, costui faceva aperta e spudorata propaganda per il proprio partito (la DC).  In data 1 agosto 1945 richiesero pertanto al comandante generale dei partigiani veneti “Pizzoni” (Sabatino Galli) l’istituzione di una «Commissione disciplinare» partigiana per vagliare la correttezza o meno degli accordi del dicembre 1944[58]. Verzotto si difese giustificando di fronte ai comandi regionali partigiani la propaganda «politica in favore del Partito Democristiano» da lui praticata, qualificando ancora una volta come «vantaggioso» l’accordo da lui stipulato cogli avversari politici «sempre comportando[si] da uomo d’onore»[59] e rifiutando di «discolparsi» di fronte ai garibaldini traditi con una sicumera prossima alla strafottenza («non ho bisogno del perdono di nessuno; sono troppo cosciente di quanto onestamente ho fatto e sono troppo rigido con la mia coscienza per cui nessuna diceria mi può intaccare o preoccupare»)[60]. Più o meno l’atteggiamento assunto decenni dopo nei confronti dei dirigenti del suo partito che lo rimproverano per le sue ostentate frequentazioni mafiose. Nel corso dell’inchiesta Graziano fu in grado di portare a sua discolpa le sole testimonianze dei fascisti Alfredo Allegro e Tommaso Calvi, suoi diretti interlocutori nelle trattative[61]. Contro di lui deposero, invece, molti partigiani della zona, dimostrando come a suo tempo egli li avesse invitati a consegnare le armi in loro possesso (non tutte ferrivecchi) e come la «capitolazione» avesse ingenerato grande «sfiducia» nella popolazione della zona, al punto che «non volle più saperne dei partigiani rendendo molto precarie le condizioni di tutti» costoro e «molto difficile il sovvenzionamento degli elementi compromessi»[62]. Alla conclusione dei suoi lavori (novembre 1945) il gran giurì partigiano – composto dal democristiano Lorenzo Bidoli (“Lumpugnani”), dall’azionista Dino Fiorot e dal comunista Virginio Benetti – emise un verdetto di compromesso. Da una parte qualificò gli accordi del dicembre 1944 come «un comportamento non conforme alle esigenze della lotta partigiana e comunque non compatibile colla fermezza richiesta ad un Comandante di formazioni partigiane» e dall’altra limitò i provvedimenti contro Verzotto alla sua rimozione dal «grado di Comandante, pur conservando la qualifica di partigiano». Tenne pertanto conto degli «indiscussi meriti» acquisiti da Verzotto durante la militanza nelle file garibaldine nel periodo antecedente il 20 dicembre 1944[63]. Ispirato all’esigenza di non inasprire i rapporti fra comunisti e cattolici, tale verdetto fu aspramente criticato dal ten. col. Camillo Rivetti, delegato da “Pizzoni” a seguire il caso. A giudizio dell’ufficiale, per il fatto di «essere sceso a patti col nemico» ed aver «compiuto opera di persuasione a favore dell’avversario», nonché «aver consegnato allo stesso delle armi», Verzotto meritava non solo di essere «rimosso dal grado» rivestito, ma anche di «perdere la qualifica di partigiano»[64]. Agli effetti pratici la sanzione proposta dalla Commissione disciplinare rimase lettera morta per intervento dello stesso Gavino Sabadin, nel frattempo asceso alla carica di Prefetto di Padova. Dovrebbe essere su la grafia di un biglietto scritto a matita, conservato fra le carte del Gabinetto Prefettura dell’Archivio di Stato di Padova, con cui suggeriva al comandante generale dei partigiani veneti “Pizzoni” (Sabatino Galli) di non dare applicazione alla sanzione proposta dalla Commissione disciplinare in quanto «senza data e senza sufficiente motivazione»[65]. Trattandosi di una sua creatura politica, in quanto egli stesso lo aveva proposto per quella carica nonostante i suoi trascorsi fascisti (o, forse, proprio in virtù degli stessi, in quanto rappresentavano una garanzia contro i rischi di una seria epurazione), tutto lascia credere che la sua richiesta sia stata accolta.  

Di questo mezzo proscioglimento non tennero conto i magistrati della Corte d’Assise straordinaria di Padova, che nella sentenza emessa (5 febbraio 1946) contro l’ex comandante della brigata nera di Camposampiero Tommaso Calvi bollarono l’accordo sottoscritto da Verzotto come «una vera e propria resa a discrezione» ai fascisti e come «un nuovo fatto di collaborazione militare col nemico»[66], negandogli le attenuanti e condannandolo a 30 anni di carcere. Men che meno le riconobbero ad Alfredo Allegro, condannato il 23 agosto 1945 a morte per le atrocità anti partigiane commesse in Piemonte. Ovviamente nel frattempo del ten. Mayer di Piazzola sul Brenta si era persa ogni traccia.

Una smentita del carattere prettamente umanitario dell’accordo è venuta anche da parte fascista. Nel 1975 «un ex milite della Brigata nera di Camposampiero»  ha sostenuto che Verzotto avrebbe barattato «la sua tranquillità con un mucchio di informazioni in suo possesso» e con la consegna di «elenchi di nomi di partigiani da arrestare». Subito dopo, però, per «la fifa dei suoi», cioè per il timore di una vendetta da parte dei partigiani garibaldini traditi, si sarebbe trasferito «praticamente in caserma» a Camposampiero ospite delle locali brigate nere, alle quali avrebbe richiesto «la vigilanza a casa sua» tramite turni «di guardia alla sua abitazione»[67].

L’allievo di Gavino Sabadin – Nelle sue memorie, pubblicate nel 2008 (Dal Veneto alla Sicilia), Graziano Verzotto ha considerato Gavino Sabadin il suo secondo maestro in ordine di tempo, ma senza dubbio il più importante ai fini della sua «formazione politica»[68]. Si dà il caso che nelle diverse sue pubblicazioni – scambiate per storiografia da qualche sprovveduto – costui abbia ricondotto la sua discesa in campo nella resistenza ad una specie di delega ricevuta dalla borghesia cittadellese rimasta orfana del fascismo e all’esigenza dei cattolici di accreditarsi presso gli Alleati futuri vincitori, in modo da non ripetere l’errore commesso durante il Risorgimento quando per avere osteggiato il processo di unificazione nazionale finirono confinati all’opposizione[69]. Pur gettatosi nella mischia con notevole ritardo, lungi dal promuovere un’intensificazione della guerriglia contro gli occupanti tedeschi e i collaborazionisti della RSI, Sabadin dedicò il suo tempo e le sue energie a contendere il controllo della pianura e delle aree montagnose del Veneto alle preesistenti formazioni partigiane a guida comunista od azionista, forte dell’appoggio delle parrocchie e ricorrendo spesso e volentieri a operazioni poco ortodosse. In Patrioti contro Partigiani l’autore è riuscito a ricostruire una parte delle pagine torbide riconducibili a lui e ai suoi sodali, come le trame imbastite contro la rivale missione militare “Biplane” e il suo comandante “Icaro” (l’ingegnere milanese Gianni Bertolazzi), contro il maggiore “Freccia” (John Prentice Wilkinson, l’ufficiale inglese intestardito a costituire un comando unico fra le formazioni operanti fra il Lago di Garda e il fiume Brenta e ad affidarlo al comunista Nello Boscagli), contro il prof. Primo Visentin (il “Masaccio” che pretendeva di processare i fascisti responsabili delle impiccagioni e fucilazioni di Bassano), e tramite accordi coi fascisti della X MAS, comandata dal principe nero J. Valerio Borghese ecc. Il suo capolavoro fu probabilmente costituito dall’imposizione come comandante militare dei partigiani veneti del col. Sabatino Cesare Galli, l’ex comandante della fascistissima PAI (Polizia Africa Italia), liberato nel 1944 dal campo di internamento in Germania dopo un giuramento di fedeltà alla Repubblica sociale di Mussolini. Di questa operazione, che poneva una pesante ipoteca sull’insurrezione e sulla gestione del dopoguerra, Sabadin ha apertamente menato vanto nelle sue memorie, mentre si è direttamente o indirettamente assunto la paternità di altre in una lettera del 26 marzo 1945 indirizzata all’esecutivo milanese della DC Alta Italia[70] e in due colloqui avuti con ufficiali alleati del PWB (Psychological Warfare Branch, nome dell’ufficio anglo-americano che durante la seconda guerra mondiale ebbe il compito di controllare il settore della stampa e della propaganda nei paesi di occupazione militare alleata) il 5 e il 16 maggio 1945. Negli stessi si presentò ai suoi interlocutori come «organizzatore delle divisioni [partigiane] Montegrappa e Ortigara»  e come «presidente dei comitato dei tre che aveva negoziato la resa finale dei tedeschi» nel Veneto. Nell’uno e nell’altro colloquio, in aperta distonia col clima festoso ed ecumenico determinato dalla fine della guerra e dalla sconfitta del nazifascismo, si abbandonò a becere polemiche – valutate con sufficienza dai suoi stessi interlocutori – contro i rivali partigiani comunisti, accusati di aver gonfiato gli effettivi delle loro formazioni con l’afflusso di combattenti dell’ultima ora, per lo più fascisti, di aver pertanto alterato i rapporti numerici con le formazioni a guida democristiana impadronendosi della «grande quantità di armi e munizioni» lasciate dai tedeschi in ritirata[71]. Nel secondo incontro ha esteso le sue rampogne ai partigiani socialisti ed azionisti, anch’essi accusati di aver negato le loro armi agli Alleati, come invece avrebbero fatto i 4000 i disciplinati partigiani preesistenti[72], di cui «più di metà erano» da considerarsi «democratico-cristiani e meno di 1000 comunisti». Questi ultimi venivano poi additati come i massimi responsabili del «disordine pubblico» creatosi in provincia di Padova, e accusati di terrorizzare i cittadini con richieste di denaro destinato finire in tasche private. Da ultimo Sabadin arrivò a sollecitare gli ufficiali alleati a procedere sollecitamente ad un forzato disarmo dei partigiani rivali, paventando l’insorgere di gravi disordini prima ancora della partenza dall’Italia delle truppe anglo-americane e prospettando una futura insurrezione comunista contro di loro[73]. Da parte sua nelle sue memorie Graziano Verzotto si è vantato di essersi avvalso dei «rapporti diretti» stabiliti a Catania col ministro degli Interni Mario Scelba negli anni 1947-1948 per recarsi al Viminale assieme a Gavino Sabadin e perorare la promozione del col. Galli a «generale della Celere». Del nuovo incarico il soggetto avrebbe fatto,  a suo parere, un «buon uso, ripristinando ordine e legalità»[74]. In sede storica quel particolare corpo di polizia è stato spesso associato alla pratica di manganellare i cortei degli oppositori politici e  degli operai scesi in sciopero per rivendicare condizioni di vita meno disumane.

Oltre che a favore di Verzotto, nelle vesti di Prefetto di Padova Sabadin si attivò assieme al clero non solo per impedire atti di giustizia sommaria a danno degli sconfitti, ma anche per sabotare ogni serio tentativo di epurazione. Non è dato sapere chi sia specificamente intervenuto a favore di Alfredo Allegro, il principale interlocutore di Verzotto nel dicembre del 1944, che don Orso lo considerava «in fondo una buona persona (diversamente dai fratelli)»[75]. Poiché costui nel 1946 risultava già riparato in Brasile con tutta la sua famiglia, viene da pensare che, ottenuta la libertà provvisoria grazie a qualche cavillo giuridico (magari il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche per l’accordo stipulato con Verzotto), costui abbia usufruito di una delle tante rat lines (vie di fuga) predisposte dal clero e dal Vaticano a favore di criminali fascisti, nazisti e ustascia. Il mancato appoggio del vescovo Agostini – che il comandante partigiano cittadellese Nino Bressan ha ricondotto a comportamenti professionali poco ortodossi – impedì a Sabadin di conseguire l’agognata elezione al Parlamento, per cui nel dopoguerra rivestì incarichi di secondaria importanza in provincia e nel comune di residenza. Deve aver conservato posizioni politiche oltranziste fino alla morte, avvenuta nel 1980, se corrisponde al vero una battuta da lui scambiata col suo compagno di partito sen. Mario Saggin e riferita dal suo autista – un dipendente della provincia di Padova – nel 1999. All’inizio del 1978 costui era rimasto esterrefatto nel sentire l’espressione – «cossa spétei a farlo fora? » – proferita da Sabadin con riferimento al presidente della DC Aldo Moro che, prima di essere sequestrato ed ucciso dalle Brigate rosse, sembrava rassegnato a cooptare nel governo i comunisti di Enrico Berlinguer[76].

Il disconoscimento degli amici patrioti – Una conferma dello spirito poco pluralista e liberale che animava Graziano Verzotto e sodali fu la costituzione, in S. Giustina in Colle appena liberata, di un CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) comunale composto da esponenti di un solo partito – il suo – che per l’occasione avevano assunto le vesti di rappresentanti delle altre forze politiche antifasciste[77]. Nel 1995 Verzotto se ne è apertamente vantato. Per quanto poi riguarda la genuinità dell’antifascismo di Sabadin si pensi all’ostinazione con cui ha preteso di riservare il posto che spettava alla DC in seno al CLN mandamentale di Cittadella all’amico Guerrino Viotto, ripetutamente contestato dai rappresentanti degli altri partiti per il fatto di aver ottenuto la liberazione da un campo di internamento in Germania e il rientro in Italia tramite giuramento di fedeltà «alla Repubblica Sociale Italiana» di Mussolini e nonostante una «specifica denuncia» mossagli da un ex internato di Castelfranco «per sevizie a danno dei nostri prigionieri e dei prigionieri francesi in Germania»[78]. In compenso la reticenza sempre mantenuta sulla vera natura e sulla portata degli accordi del dicembre 1944 e il perdurante appoggio del prefetto Sabadin garantirono a Verzotto, tra il «giugno 1945» e il «luglio 1946», i gradi di tenente della polizia ausiliaria partigiana[79], il corpo che il politico cittadellese si era fatto autorizzare dal governatore alleato gen. Dunlop per gestire in provincia di Padova un processo di restaurazione in chiave badogliana orgogliosamente rivendicato dall’interessato nelle relazioni mensili inviate al ministro dell’Interno[80]. Ne rimase vittima, fra gli altri, il partigiano comunista Bruno Ballan, già vice di Verzotto nel VI battaglione garibaldino “Sparviero”. Dopo essere fuggito due volte dalle carceri fasciste – una volta (luglio 1944) proprio da quelle di Camposampiero, con grande smacco dei gerarchi locali e padovani[81] – finì altre due volte incriminato e incarcerato nel dopoguerra con imputazioni rivelatesi alla fine infondate[82].

Ovviamente nei confronti di Verzotto non venne mai meno il risentimento dei fascisti, che mai gli perdonarono la violazione degli accordi del 20 dicembre 1944. Non lo considerarono loro interlocutore nemmeno negli anni della “strategia della tensione” (1969-1974), quando molti settori delle Istituzioni – in particolare quelli di estrazione o sensibilità badogliana – si prestarono a fornire complicità e coperture ad esponenti del terrorismo nero. I vecchi e i nuovi fascisti, in compenso,  si tolsero molti sassolini dalle scarpe nel 1975 quando, travolto dalla scandalo dei fondi neri percepiti nelle banche ex Sindona, Graziano fu dapprima costretto a dimettersi dalla presidenza dell’Ente minerario siciliano (EMS) e poi a scappare all’estero per sfuggire a due mandati di cattura per peculato e interessi privati in atti d’ufficio emanati dai magistrati di Palermo e Milano. I fratelli Giorgio e Paolo Pisanò gli scatenarono allora una feroce campagna di stampa sul settimanale «Candido» attribuendo alla sua militanza partigiana le peggiori nefandezze, alcune inventate di sana pianta[83]. Altre gravi accuse i parlamentari missini Giorgio Pisanò e Giuseppe Niccolai gliele mossero l’anno successivo nelle due relazioni di minoranza allegate a quella ufficiale della Commissione parlamentare di indagine sulla mafia, presieduta dal padovano Luigi Carraro, anch’egli molto severo nei confronti di un compagno di partito al quale il segretario Amintore Fanfani si era affrettato a togliere la tessera della DC. 

Guardato sempre con diffidenza dagli ex garibaldini da lui traditi, Verzotto non riuscì mai ad entrare nelle grazie di molti dei suoi nuovi compagni di strada. Nel suo libro sulla resistenza dei cattolici padovani, pubblicato nel 1965, Fantelli continuava a considerare Verzotto e i suoi patrioti della  III brigata “D. Chiesa” come «ex garibaldini pieni di buona volontà e di generose intenzioni, ma ancora abituati alla tattica comunista»[84]. Proprio a simili  «pistoleros», affetti da «sventatezza», egli addebitò la colpa di aver «portato fra le brigate cristiane lo spirito e la tecnica di quelle garibaldine»[85]. Irritato con lui per il «colpo di testa inutile, quanto spavaldo e «inconsulto» di S. Giustina in Colle del 26-27 aprile 1945, don Ugo Orso arrivò addirittura ad attribuirgli la responsabilità dell’eccidio di S. Anna Morosina[86], al quale in realtà egli era rimasto del tutto estraneo. Ad un disconoscimento puro e semplice della sua militanza fra i patrioti di scuola cattolica e badogliana sono arrivati, nel 1999, i sodali cittadellesi di Sabadin ancora in vita tramite dichiarazioni sottoscritte da una parte da Elio Rocco della Missione “MRS” («dal 1 ottobre 1943 al 30 aprile 1945 non ho mai avuto occasione di sentir parlare di Graziano Verzotto […] e che […] fosse fatto menzione che la III Brigata “Damiano Chiesa” fosse stata posta sotto il comando di Graziano Verzotto»)[87] e dall’altra dai superstiti esponenti della I brigata “D. Chiesa” («non risulta al comando Brigate “Damiano Chiesa” la sua [di Verzotto] nomina a comandante della terza brigata […]. Eventuali incarichi, di cui comunque noi non abbiamo mai sentito parlare, eventualmente da lui ricevuti dall’avv. Sabadin verso il febbraio 1945 potrebbero avere avuto un contenuto politico che non ci riguarda. Il Verzotto non era stato militare e mai il nostro comando gli avrebbe affidato un comando militare»)[88]. Tutti costoro sarebbero risultati più convincenti se fossero stati in grado di indicare un comandante della III brigata “Damiano Chiesa”  diverso da Verzotto. Il non averlo fatto evidenzia una coda di paglia. In realtà una presa di distanza così spudorata e tardiva trova una spiegazione razionale solo nell’inchiesta sulla morte di Enrico Mattei allora in corso per iniziativa della Procura della Repubblica di Pavia. Probabilmente in ambienti non all’oscuro del ruolo giocato da Verzotto nel complotto politico sovranazionale ordito contro il fondatore dell’Eni, l’esponente della resistenza cattolica accusato di «filocomunismo» anche da Gavino Sabadin[89], si era affacciato il timore che il nuovo procedimento giudiziario potesse approdare all’accertamento di una verità scomoda per tutti i suoi compagni di strada, nuovi e vecchi.

Una carriera politica all’insegna della spregiudicatezza – Diverso il comportamento di colui che nel dicembre 1944 aveva gestito il traghettamento di Verzotto dalle file della resistenza garibaldina a quelle cattolico-badogliane. Gavino Sabadin non fece mai mancare a Verzotto il suo sostegno e la sua solidarietà ed egli lo seguì fedelmente nelle iniziative che portarono alla rottura dell’ANPI, l’Associazione nazionale dei partigiani italiani allora egemonizzata dai comunisti filo staliniani. Con lui ed altri organizzò «l’uscita dei Bianchi dall’ANPI considerata monopolio dei Rossi», collaborando alla «creazione prima della Corrente Partigiani Cristiani in seno all’ANPI, di cui fu vicesegretario nazionale, e poi dell’Associazione Partigiani Cristiani con Mattei presidente, aderente alla Federazione Nazionale Volontari della Libertà»[90]. Sempre col suo appoggio tra lo «agosto 1946» e il «luglio 1947» ottenne di essere messo a «capo dell’ufficio ex partigiani» bianchi  padovani «bisognosi di assistenza» o «alla ricerca di un’occupazione»[91]. Nel 1948 furono proprio i dirigenti della FIVL (Federazione Italiana Volontari della Libertà) a raccomandarlo per un’assunzione all’AGIP[92], che tre anni prima Enrico Mattei aveva salvato dalla liquidazione. Nel 1968 Verzotto divenne vicepresidente «nazionale della Associazione partigiani cristiani fondata da Enrico Mattei» e qualche tempo dopo anche presidente «della Federazione degli ex combattenti della provincia di Siracusa». «Componente del Comitato Provinciale della D.C. di Padova» fin dal 1945[93], una volta che la stella del suo «padrino politico» Sabadin cominciò a declinare Verzotto si avvicinò ad altri esponenti della DC come Stanislao Ceschi, vicesegretario nazionale della DC. L’appoggio di questi politici non fu sufficiente, tuttavia, a sterilizzare le animosità che l’eccidio del 27 aprile gli aveva suscitato tra gli abitanti di S. Giustina, come ricordato anche da un rapporto del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo del 1975. Esse potrebbero non essere rimaste sempre allo stadio verbale se si pensa al pestaggio subito da Graziano Verzotto nel pomeriggio del 29 aprile 1945. Nel diario storico della brigata egli ha imputato le percosse ricevute a «militi della SS in ritirata»[94], ma l’amico Gino Pierobon ricordava di averlo allora sentito incolpare i fascisti e personalmente non escludeva una ritorsione dei familiari delle vittime dell’eccidio del 27 aprile[95]. Altre malignità le suscitò in paese la morte violenza di personaggio di dubbia moralità soprannominato Carlindo dea orba, il cui cadavere fu fatto ritrovare sul ponte d’ingresso dell’abitazione di Verzotto col chiaro intento di far ricadere i sospetti sulla sua persona[96].    

Resosi conto di essersi precluso ogni spazio politico nel paese natale e in tutto il camposampierese, alla metà del 1947 Graziano accettò al volo la proposta di trasferirsi «a Catania per un anno per conto della DC Nazionale come Organizzatore provinciale in preparazione delle elezioni politiche 1948». Dopo la forte affermazione delle sinistre alle regionali dell’aprile 1947, i dirigenti nazionali della DC avevano pensato di piazzare in ogni provincia siciliana un «esperto in organizzazione» e Graziano fu considerato tale[97]. Per motivare l’abbandono della terra natale l’interessato ha invece propinato al suo agiografo il timore di una vendetta da parte dei comunisti padovani, restii a perdonargli il voltafaccia di tre anni prima. Ha pertanto interpretato come diretti alla sua persona  i colpi di arma da fuoco che il 30 ottobre 1946 uccisero il segretario della democrazia cristiana di S. Giorgio delle Pertiche Gelindo Torresin proprio la sera in cui doveva incontrarsi con lui[98]. Tale versione risulta smentita non solo dal rapporto dei carabinieri di Padova e dalla cronaca de «Il Gazzettino», ma anche dalla relazione settimanale inviata dal prefetto di Padova Manno al ministro degli Interni.[99].

A Catania Graziano Verzotto conseguì la sicurezza economica grazie al matrimonio (luglio 1949) con Maria Nicotra Fiorini «erede di un cospicuo patrimonio familiare»[100] e politicamente assai influente, visto che alla carica di presidente dell’Azione cattolica di Catania sommava quella di parlamentare della DC all’Assemblea Costituente. Gli fecero da testimoni Gavino Sabadin e Stanislao Ceschi, a riprova di una perdurante affinità umana oltre che politica[101]. Un’adeguata sistemazione professionale la ottenne l’anno successivo (1950) con la «assunzione all’AGIP prima a Milano (ufficio vendite metano) » e «poi a Roma, sede centrale». L’incarico gli permise di dedicare molto del suo tempo e delle sue energie alla politica, per cui fra il 1952 ed il 1953 poté gestire «la Direzione di un Ufficio Nazionale SPES in occasione delle elezioni amministrative tenute in questo periodo»[102]. Risale al 1955 la sua nomina a «Commissario provinciale DC a Siracusa» su designazione del «Segretario nazionale Fanfani»[103]. Nei diciassette successivi ricoprì la carica di «Segretario Provinciale» del «partito della Democrazia cristiana nella provincia di Siracusa»[104], sbrigata «con pazienza, con affetto ma soprattutto con spirito da siciliano»[105], tanto che alla fine «sostenitori e detrattori» concordarono nel considerarlo un personaggio di notevolissima intelligenza, politico sottilissimo e uomo di grandi capacità»[106].

Con la stessa disinvoltura con cui aveva tradito dapprima i compagni garibaldini e poi i nazifascisti, una volta stabilitosi in Sicilia Graziano Verzotto non si fece scrupoli di contrarre legami con esponenti di primo piano di Cosa Nostra. Da autorevoli collaboratori di giustizia come Tommaso Buscetta, Antonio Calderone e Francesco di Carlo sono giunte conferme e dettagli dei rapporti di familiarità e di amicizia stabiliti con mafiosi del calibro del boss di Riesi (CL) Giuseppe di Cristina, del boss di Catania Giuseppe Calderone di Catania o dell’on. Calogero Volpe, parlamentare e sottosegretario democristiano per più legislature, censito come mafioso di rango fin dal 1944. Nella primavera del 1962 l’appoggio dell’on. Volpe e di Antonio Di Cristina, rispettivamente segretario e vicesegretario democristiani della provincia di Caltanissetta, si rivelarono decisivi per la sua nomina a «Segretario Regionale della DC in Sicilia»[107]. Le premesse erano state poste in occasione delle elezioni politiche del 1958 quando, messo in lista all’ultimo momento, Graziano Verzotto era risultato il primo dei non eletti nel suo collegio elettorale grazie alle preferenze dirottate sulla sua persona dalla famiglia Di Cristina. Verzotto ricambiò il favore prestandosi a fare, nel settembre del 1960, da compare d’anello a Giuseppe Di Cristina unitamente a Giuseppe Calderone. Il sostegno ricevuto in occasione della sua nomina a segretario regionale DC dovette probabilmente ricambiarlo a fine ottobre 1962, quando si prestò ad organizzare il viaggio-trappola di Enrico Mattei in Sicilia del 26-27 ottobre 1962. Il culmine carriera lo raggiunse con la presidenza (1967-1975) dell’Ente Minerario Siciliano,  il più importante e famelico ente di sottogoverno regionale, carica che dovette abbandonare il 27 gennaio 1975 dopo la scoperta da parte dell’avv. Giorgio Ambrosoli degli interessi in nero da lui percepiti sui fondi depositati dal suo Ente minerario in banche ex Sindona. Per il suo ruolo nel caso De Mauro e per vicende successive alla sua liquidazione politica e morale – che il 1 febbraio 1975 rischiò di diventare anche fisica – si veda il saggio intitolato Le memorie di Graziano Verzotto, ovvero l’arte di mentire senza ritegno.

Egidio Ceccato                          25  giugno 2020


[1] Lettera di Graziano Verzotto al comandante militare regionale veneto – Padova e pc al comando militare regionale veneto – Padova, senza data, in ASPd (Archivio di Stato di Padova) Gab. Pref. (Gabinetto Prefettura), busta n. 626.

[2] III brigata “Damiano Chiesa”, Cenni storici del I e del II battaglione, S. Giustina in Colle 15 marzo 1946, in E. Ceccato, Camposampiero 1866-1966. Un comune dell’Alta padovana nel crepuscolo della civiltà contadina, Padova, Signum, 1988, p. 523.

[3] Ivi, Relazione sull’attività militare  svolta dal I e II battaglione, pp. 530-531.

[4] Cfr. E. Ceccato, L’eccidio nazifascista di S. Giustina in Colle (27 aprile 1945) fra storia e fantasticherie paesane, luglio 2020.

[5] G.E. Fantelli, La resistenza dei cattolici nel padovano, FIVL, Padova, 1965, pp. 278-279.

[6] Ivi, p. 191.

[7] G. Ruffato, Alba di libertà,  senza note tipografiche (ma Gallarate novembre 1985),  p. 32.

[8] Lettera di Graziano Verzotto al comandante militare regionale veneto,  cit.

[9] Lettera di Graziano Verzotto al comando della brigata Garibaldi –Padova, S. Giustina in Colle 22 agosto 1945, in ASPd  Gab. Pref. b. 626.

[10] Conversazione telefonica dell’autore con mons. Mario Zanchin, 7 aprile 1997.

[11] Conversazione dell’autore con Gino Pierobon, Camposampiero 15 maggio 1995.

[12] G. Ruffato, op. cit.

[13] Denuncia a carico dei signor Verzotto Graziano di S. Giustina in Colle, a firma di Amerigo Torresin, Campodarsego 1 agosto 1945 in ASPd  Gab. Pref. b. 626.

[14] Lettera di Graziano Verzotto al comando militare provinciale di Padova. Oggetto: in difesa di un compromesso, sede 15 gennaio 1945, in ASPd  Gab. Pref. b. 626.

[15] Ibidem.

[16] Comando Brigata d’assalto Garibaldi “Franco Sabatucci”. Oggetto: inchiesta sul caso dell’ex comandante del 6° btg. “Sparviero ” Verzotto Graziano, Padova 1 agosto 1945, in ASPd  Gab. Pref. b. 626.

[17] G. Ruffato, op. cit. pp. 24-25.

[18] Comando Brigata d’assalto Garibaldi “Franco Sabatucci”. Oggetto: inchiesta sul caso dell’ex comandante del 6° btg. “Sparviero ” Verzotto Graziano, cit.

[19] Conversazione dell’autore con Bruno Ballan, Camposampiero 12 maggio 1997.

[20] R. Beretta, Quando il Duce graziò lo stato maggiore della DC partigiana , in «Avvenire», 20 gennaio 2008.

[21] Acta Fondazione della RSI, Istituto storico anno XXII n. 3 settembre-novembre 2008.

[22] E. Ceccato, Resistenza e normalizzazione nell’Alta Padova. Il caso Verzotto, le stragi naziste, epurazione ed amnistie, la crociata anticomunista,  Centro Ettore Luccini, Padova, 1999, p. 166.

[23] Breve relazione sintetica, in E. Ceccato, Camposampiero 1866-1966, cit. p. 520.

[24] G. Ruffato, op. cit.  p. 33.

[25] B. Gramola – A. Maistrello, La divisione partigiana Vicenza e il suo battaglione guastatori, Vicenza 1995, p. 77.

[26] Lettera di Graziano Verzotto al comando militare provinciale di Padova, 15 gennaio 1945, cit.

[27] E. Ceccato, Patrioti contro partigiani. Gavino Sabadin e l’involuzione badogliana della Resistenza nelle Venezie, Cierre edizioni, Sommacampagna, 2004.

[28] Schema di una biografia di G.V,. Manoscritto di 12 pagine, s. d. (ma 1995), p. 2 (documento in copia presso l’autore).

[29] E. Ramazzina, Santa Giustina in Colle. Gli anni della seconda guerra mondiale 1940-1945, Comune di Santa Giustina in Colle, Villa del Conte, Bertato, 2002, p. 212.

[30] Questione Verzotto (Bartali), a firma Nicola dott. Biheller, Fanzolo di Vedelago addì 6 giugno 1945 (in copia presso l’autore).

[31] Comando Brigata d’assalto Garibaldi “Franco Sabatucci”. Oggetto: Inchiesta sul caso dell’ex comandante del 6° btg. “Sparviero ” Verzotto Graziano, Padova 1 agosto 1945, in ASPd Gab. Pref. b. n.626.

[32] Verbale di interrogatorio di “Bartali” fatto alla presenza della commissione diretta dal presidente la Commissione stessa,  Padova 16 novembre 1945, in ASPd  Gab. Pref.  b. 626.

[33] Dichiarazione del col. Marcello Bassano, Camposampiero 5 luglio 1945, in ASPd  Gab. Pref. b. 626.

[34] Lettera di Graziano Verzotto al comando della brigata Garibaldi –Padova, cit.

[35] Lettera di Graziano Verzotto al comando militare provinciale di Padova, 15 gennaio 1945, cit.

[36] Lettera di Graziano Verzotto al comandante militare regionale veneto – Padova e pc al comando militare regionale veneto – Padova, cit.

[37] Conversazione dell’autore con Gino Pierobon, cit.

[38] Ibidem.

[39] Bruno Bordin, I preti nella Resistenza. Manoscritto di quattro pagine ricevuto dall’autore  in data 26 marzo 1999.

[40] Lettera di Graziano Verzotto al comando della brigata Garibaldi-Padova, cit..

[41] G. Verzotto, Dal Veneto alla Sicilia. Il sogno infranto: il metanodotto Algeria-Sicilia. Le memorie di Graziano Verzotto, Padova, La Garangola, 2008, p. 24.

[42] G. Ruffato, op. cit. pp. 35-40.

[43] Conversazione dell’autore con Duilio Munaro, Camposampiero 12 maggio 1997.

[44] Sulla figura di Nicola Biheller cfr. E. Ceccato, Trebaseleghe 1938-1948. Resistenza e dintorni. Fascismo, guerra e Liberazione nel nord-est padovano, Comune di Trebaseleghe, Casier (TV), 1999, pp. 231-235 e Guerra, Resistenza e rinascita di Castelfranco Veneto. La vicenda di Guido Battocchio (1919-2001). Istresco, Sommacampagna (VR), 2007, pp. 123-124.

[45] Dichiarazione, a firma Nicola dott. Biheller, Fanzolo di Vedelago 6 giugno 1945 (documento in copia presso l’autore).

[46] III brigata “Damiano Chiesa”, Cenni storici del I e del II battaglione, cit.

[47] P. Pisanò, I fantasmi di Santa Giustina,  «Candido», 27 febbraio 1975 p. 4.

[48] Lettera di Graziano Verzotto al comando della brigata Garibaldi-Padova, cit.

[49] E. Ceccato, Patrioti contro partigiani, cit. p. 176.

[50] Ivi, pp. 185-190.

Ovviamente anche Orlando Bettarel sarebbe riuscito, dopo essere stato «arrestato e seviziato», ad evadere dal carcere» fascista. Cfr. Proposta per la concessione di una medaglia americana al valore nei confronti del partigiano Bettarel Orlando, archivio  INSMLI (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione italiano), fondo CVL b.136 fasc. 401.

L’autore ritiene che molte delle asserite autoliberazioni di resistenti di area badogliana dalle carceri fasciste siano state in realtà delle messinscene.

[51] E. Rocco, Missione MRS 1943-1945. Testimonianze di Elio Rocco, stab. tip. Continuos, Cittadella, 1998.

[52] Lettera di Graziano Verzotto al comando militare provinciale di Padova, 15 gennaio 1945, cit.

[53] Inchiesta sul caso dell’ex comandante del 6° btg. “Sparviero ” Verzotto Graziano (“Bartali”), cit.

[54]G. Ruffato, op. cit. p. 34- 34.

[55] E. Ceccato, I giorni del lutto e del riscatto 1940-1945. Guerra e Resistenza a Campo San Matino, Curtarolo e Piazzola sul Brenta, Comuni di Campo San Martino, Curtarolo e Piazzola sul Brenta, Limena, 2006, pp.165-167.

[56] Inchiesta sul caso dell’ex comandante del 6° btg. “Sparviero” Verzotto Graziano (“Bartali”), cit.

[57] Ibidem

[58] Ibidem.

[59] Lettera di Graziano Verzotto al comandante militare regionale veneto – Padova e pc al comando militare regionale veneto – Padova, cit.

[60] Lettera di Graziano Verzotto al comando della brigata Garibaldi-Padova, S. Giustina in Colle 22 agosto 1945, cit.

[61] Deposizione dell’ex comandante fascista Alfredo Allegro, Padova 7 agosto 1945 e Deposizione dell’ex fascista Calvi Tomaso, Padova 20 luglio 1945,  in ASPd  Gab. Pref. b. 626.

[62] Dichiarazione di Mario Finco, Padova 1 agosto 1945, in ASPd  Gab. Pref. b. 626.

[63] Relazione della commissione disciplinare sul caso Verzotto,  senza data, a firma Lorenzo Bidoli, Virginio Benetti  e Dino Fiorot, in ASPd  Gab. Pref. b. 626.

[64] Lettera del tenente colonello Camillo Rivetti al Comandante militare regionale del CVL, Padova 21 novembre 1945, in ASPd Gab. Pref. b. 626.

[65] Biglietto a matita, senza firma e senza data,  indirizzato al Comandante regionale veneto CVL, in ASPd Gab. Pref. b. 626.

[66] E. Ceccato, Resistenza e normalizzazione, cit. p.  153.

[67] P. Pisanò, op. cit. pp. 2-4.

[68] G. Verzotto, Dal Veneto alla Sicilia, cit. p. 32.

[69] G. Sabadin – G. Prandina, in Cattolici nella Resistenza. La Resistenza vicentina e padovana, Roma, 1968, pp. 281-282.

[70] E. Fantelli, op. cit.p.148.

[71] PWB Unit n. 14 APO 512, Consolidated report on conditions on liberated Italy, North of the Army 5.05.1945, in PRO (Public Record Office) di Londra, WO (War Office), b. 204 f. 6369 (in copia presso CASRECCentro di Ateneo per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Padova).

[72] PWB Venice, Conversation with Prefect of Padova on the Partisans, in Intelligence report on Venice and the Veneto n. 6, 15.06.1945 in  PRO WO 204/6380 98799 (in copia presso CASREC di Padova)

[73] Ibidem.

[74] G. Verzotto, Dal Veneto alla Sicilia, cit. p. 37

[75] E. Fantelli, op. cit. p. 278.

[76] La testimonianza è stata riferita all’autore a Pieve di Curtarolo sul finire del 1999, al termine della presentazione della pubblicazione Resistenza e normalizzazione nell’Alta padovana.

[77] Dev’essersi trattato di un abuso piuttosto frequente se nell’estate del 1945 tutti i CLN comunali in provincia di Padova furono sciolti.

[78] Cfr. Lettera del CLN mandamentale di Cittadella al CLN provinciale di Padova, Cittadella 6 dicembre 1945, in ASPd. Fondo  CLN, b. n. 8

[79] Conversazione dell’autore con Graziano Verzotto, S., Giustina in Colle 10 settembre 1995.

[80] Cfr. in generale Relazioni settimanali del prefetto di Padova al ministro dell’Interno del periodo maggio-dicembre 1945 e in particolare Mese di ottobre 1945, Relazione mensile sulla situazione politica, economica, annonaria, sull’ordine e lo spirito pubblici e sulle condizioni della pubblica sicurezza nella provincia di Padova, in ACS (Archivio Centrale di Stato di Roma), Ministero dell’Interno, Direzione generale della PS. Divisione affari generali e riservati sez. I b. 22

[81] L. Rostirola, Cronaca della parrocchia di Camposampiero dall’anno 1944, Nota 1-2 luglio 1944, in E. Ceccato, Camposampiero 1866-1966 cit. p. 514

[82] Conversazione dell’autore con Bruno Ballan, 12 maggio 1997.

[83] Cfr. Verzotto il boia. Il partigiano più odiato della provincia di Padova: storia inedita di un ‘ras’ democristiano, «Candido», 27 febbraio 1975

[84] G. E. Fantelli, op. cit. p. 132.

[85] Ivi, nota 373 a p. 193.

[86] Ivi, p.. 279.

[87] Dichiarazione di Elio Rocco a Gianni Conz, Cittadella 20 giugno 1999 (documento in copia presso l’autore)

[88] Lettera della FIVL mandamentale di Cittadella al sindaco di Cittadella Lucio Facco, Cittadella 22 settembre 1999, a firma Vasco Baggio, Gianni Conz, Antonio Armano ed altro (nome illeggibile), in copia presso l’autore e Dichiarazione di Elio Rocco a Gianni Conz, Cittadella 20 giugno 1999, cit.

[89] Cfr. Lettera di Gavino Sabadin al sen. Giuseppe Bettiol, 11 marzo 1973, in L. Scalco. Volontari della libertà, Prefazione di Giannantonio Paladini, Presentazione di Gianni Conz, Biblioteca Cominiana, Cittadella,  2000, nota 121 a p. 193.

[90] Ibidem.

[91] Schema di una biografia di G.V. Manoscritto autografo di Graziano Verzotto di 12 pagine [1995], p. 3 (documento in copia presso l’autore).

[92] Lettera della Federazione italiana volontari della libertà a Graziano Verzotto, Milano 10 novembre 1948 (in copia presso l’autore).

[93] Curriculum vitae. Dattiloscritto di n. 5 pagine consegnato da Graziano Verzotto all’autore nel 1975.

[94] E. Ceccato, Resistenza e normalizzazione, cit. p. 249.

[95] Conversazione dell’autore con Gino Pierobon, cit.

[96] Ibidem.

[97] Curriculum vitae, cit.

[98] G. Verzotto, Dal Veneto alla Sicilia, cit. pp. 177-178

[99] Relazione del prefetto di Padova, Settimana  28 ottobre-3novembre 1946), in ACS (Archivio centrale di Stato di Toma), Ministero dell’Interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, Direzione affari generali 1944-46, sez. I, Relazione del prefetti 1946, b. 32.

[100] A. Caruso, Da cosa nasce Cosa. Storia della mafia dal 1943 ad oggi, Longanesi, Milano, 2000, p. 177.

[101] Conversazione dell’autore con Giuseppe Ruffato, S. Giustina in Colle 10 aprile 1995.

[102] Curriculum vitae, cit.

[103] Schema di una biografia di G.V. cit. p. 5

[104] Curriculum vitae, cit.

[105]  Un polentone in quel di Siracusa, «Il Giornale di Sicilia del lunedì», 3 febbraio 1975 p. 15 

[106]  Ibidem.

[107] E. Ceccato, Il delitto Mattei. Complicità italiane in un’operazione segreta della Guerra Fredda, Castelvecchi, Roma, 2019, p. 205.

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