L’eccidio nazifascista di S. Giustina in Colle (27 aprile 1945) fra fantasticherie paesane e storia

Scherzi della memoria – Nel corso dei decenni gran parte dell’opinione  pubblica di  S. Giustina in Colle e dei paesi limitrofi è stata indotta a credere che l’eccidio del 27 aprile 1945 sia stato opera di reparti tedeschi in ritirata dal fronte desiderosi di vendicare l’uccisione di due loro commilitoni da parte dei locali patrioti comandati da Graziano Verzotto. Tale credenza poggia su una molteplicità di falsi storici, perché l’intervento germanico fu specificamente richiesto dai fascisti del camposampierese (partecipanti alle prime fasi delle operazioni), i militari germanici provenivano dal presidio di Castelfranco Veneto e non dal fronte, un unico soldato tedesco rimase ucciso a S. Giustina nei giorni dell’Insurrezione e tale evento non ebbe alcuna incidenza sulla strage. Primariamente proteso a contestare la presunta saggezza del detto popolare “ponti d’oro al nemico che fugge” – un luogo comune che suona l’esatto contrario delle direttive impartite dagli Alleati ai vertici nazionali del movimento partigiano – nelle sue prime pubblicazioni sulla Resistenza locale pure l’autore di questo testo si è lasciato condizionare dalla tradizione locale, che voleva pedissequamente applicata anche a S. Giustina la cosiddetta “direttiva Kesselring” (dieci civili italiani fucilati per ogni soldato tedesco ucciso).

La memoria pubblica, si sa, è una creazione della politica e chi controlla i mezzi di informazione o dispone dell’egemonia culturale la può filtrare e plasmare quasi a piacimento. Per decenni i film western americani hanno rappresentato le popolazioni indigene del Nord America (pellerossa), oggetto in sede storica di uno spietato genocidio, come crudeli aggressori anche quando difendevano i loro territori vitali, cucendo invece i panni delle vittime addosso a coloni e cowboy che li massacravano con le armi, la fame e le malattie. A vent’anni di distanza dall’11 settembre 2001, dei quattro aerei che hanno seminato distruzione e morte sulla costa occidentale degli USA veniamo sollecitati a ricordarne solo due: quelli fatti precipitare dai terroristi islamici contro un obiettivo civile indifeso come le Twin Towers di New York. Sono letteralmente spariti dai media e, quindi, dalla memoria collettiva sia l’aereo abbattutosi sul Pentagono (il cervello del sistema militare statunitense), sia quello che, secondo la versione ufficiale, sarebbe stato fatto precipitare dai passeggeri in rivolta, mentre non è da escludere che sia stato abbattuto da missili o caccia governativi per impedire che andasse a schiantarsi contro un terzo bersaglio di grande valore politico e simbolico di Washington (come la Casa Bianca o il Campidoglio). Essendosi fatti beffe del sistema di difesa più avanzato e costoso del mondo, gli ultimi due avrebbero potuto ricordarci come nemmeno i più stratosferici investimenti militari possano garantire ai cittadini un’assoluta sicurezza o prevenire situazioni in cui i governanti sono obbligati a scegliere fra alternative drammatiche.

Il fatto che, a 75 anni dal fatidico 27 aprile 1945, l’apposita voce dell’enciclopedia digitale Wikipedia continuasse a spiegare l’eccidio nazifascista di S. Giustina con vecchie suggestioni popolari ha convinto lo scrivente a contrapporvi una ricostruzione degli eventi rispettosa della documentazione coeva e delle conoscenze storiche da lui acquisite in oltre 25 anni di ricerche condotte sulla Resistenza locale e regionale[1].  

Insurrezione? Rischiosa, ma necessaria – A suo tempo la popolazione del camposampierese ha considerato maramaldeschi tutti gli attacchi portati dai partigiani contro le truppe tedesche in ritirata dal fronte a fine aprile 1945. In realtà erano state proprio le direttive degli Alleati ad imporre loro di non dar tregua al nemico in fuga, in quanto avevano riservato ai militari germanici un destino di resa o di morte e non certo il ritiro  indisturbato al di là delle Alpi. Proprio per questo nei mesi precedenti avevano paracadutato alle formazioni partigiane ingenti quantità di armi e di rifornimenti, superando le perplessità suscitate dalla rivolta (dicembre 1944) dei comunisti greci contro le truppe di liberazione britanniche e il timore che una situazione simile potesse riproporsi anche nel Nord Italia. Colle loro imboscate nelle retrovie nemiche le formazioni partigiane avrebbero dovuto fiaccare la resistenza tedesca, in modo da contenere le perdite umane degli anglo-americani e velocizzare l’avanzata delle loro truppe verso est e verso nord, al fine di precedere l’armata rossa in Slovenia e in Austria, nonostante che nell’aprile 1945 tali obiettivi non risultassero più a portata di mano come invece lo erano stati nel settembre-ottobre del 1944, quando queste direttive furono impostate. Ovviamente l’esito dell’offensiva militare di primavera si giocò sull’Appennino e in Emilia e gli Alleati non ignoravano affatto il rischio di rappresaglie naziste sulla popolazione civile, ma coloro che avevano mandato i loro giovani a morire per la liberazione del nostro Paese non si facevano certo scrupoli a richiedere un contributo di sangue a chi proclamava di voler concorrere al riscatto dell’Italia da una ventennale dittatura. Pertanto le truppe alleate continuarono a incalzare senza pietà i reparti tedeschi in ritirata, che pure dopo le battaglie campali combattute a ridosso dell’Appennino avevano perduto ogni capacità difensiva. Fu dunque responsabilità dei capi del nazismo – indotti fino all’ultimo a sperare in una pace separata con gli anglo-americani e perfino in un ribaltamento delle alleanze in funzione anti sovietica – se nel Nord Italia dopo la metà di aprile la ritirata delle loro truppe si trasformò in una rotta rovinosa. Così una campagna militare ormai perduta si trascinò fino al pomeriggio del 2 maggio 1945, quando entrò in vigore la resa senza condizioni firmata a Caserta dai plenipotenziari del  generale Heinrich von Vietinghoff, che il feldmaresciallo Kesselring aveva provato ad esautorare perché propenso a firmare una resa con gli Alleati. Solo allora cessò il calvario dei militari tedeschi, divenuti anch’essi vittime della bestiale guerra di conquista scatenata dal nazismo.  

Impreparazione e improvvisazione dei patrioti di Verzotto.  Non alla scelta dell’Insurrezione, dunque, ma alla sua gestione da parte del comandante Graziano Verzotto possono essere mossi degli appunti critici. In realtà tutte le operazioni insurrezionali erano a forte rischio, ma quella di S. Giustina in Colle in misura maggiore delle altre per diverse ragioni. In primo luogo perché, su sollecitazione del clero padovano (il cappellano della banda Carità don Ugo D’Orso e il cancelliere vescovile don Mario Zanchin) e del leader della resistenza cattolica padovana (Gavino Sabadin), intorno al 20 dicembre 1944 Verzotto era sceso a patti coi fascisti padovani (Alfredo Allegro e Tommaso Calvi, rispettivamente numero due della nomenclatura della RSI padovana e comandante della brigata nera di Camposampiero) e coi tedeschi di Piazzola sul Brenta nella persona del ten. Mayer della SD (Sicherheitsdienst, ovvero ‘Servizio di Sicurezza’). In seguito Verzotto ha spacciato questo accordo come compromesso a sfondo umanitario, necessario a  salvare la vita ai suoi uomini. In realtà alcune clausole provano che i capi fascisti, il clero padovano e i rappresentati della locale resistenza badogliana l’avevano concepito in funzione anti garibaldina ed anticomunista, cioè per riservare il controllo dell’alta padovana ad una formazione politicamente moderata, in grado di garantire una fuoruscita il più possibile indolore a  soggetti e ceti che, per il fatto di avere vent’anni prima mandato al potere il fascismo, rischiavano di pagare il fio della guerra di aggressione incautamente dichiarata e ingloriosamente perduta da Mussolini. Pertanto l’insurrezione rappresentò uno schiaffo morale ai fascisti della zona, senza peraltro che i patrioti di Verzotto avessero nei mesi precedenti acquisito la preparazione militare necessaria ad affrontare la prevedibile reazione delle brigate nere e dei presidi tedeschi dislocati nel territorio. Anche se sulla carta vantava una pletora di adepti – ben 350 partigiani, 200 patrioti e 81 collaboratori secondo il diario storico della formazione[2]  – la III brigata “D. Chiesa” era stata costituita da Verzotto nel gennaio del 1945 per contendere il controllo del territorio dell’Alta padovana ai garibaldini del VI battaglione “Sparviero” e del I battaglione “Stella” e non certo per intensificare le azioni di guerriglia contro fascisti e tedeschi. Poiché, poi, i vertici cittadellesi del gruppo brigate “D. Chiesa” (Bepi Armano e Gavino Sabadin) non fecero mai seguire all’ordine di mobilitazione quello di insurrezione, anche a S. Giustina le operazioni militari del 26-27 aprile furono condotte all’insegna della massima improvvisazione. I patrioti di Verzotto vi parteciparono all’ultimo minuto e solo per non lasciare l’onore della liberazione del paese ai pochi partigiani rimasti fedeli al movimento garibaldino, localmente guidato da Giovanni Binotto. Sembra che lo stesso Graziano Verzotto abbia saputo dell’insurrezione a cose fatte, ponendosi alla guida degli insorti quando la situazione era già in movimento[3].  

La provenienza dei tedeschi – Anche nel cuore geografico del Veneto l’unico modo per contenere i rischi dell’insurrezione era quello di prevedere una sincronizzazione delle operazioni militari tra le forze partigiane dislocate nel territorio. Così non avvenne e siccome a Castelfranco Veneto i patrioti della brigata “C. Battisti” di Gino Sartor rinunciarono ad attaccare i tedeschi accasermati a Villa Bolasco, costoro rimasero liberi di intervenire nelle vicine località interessate dall’insurrezione partigiana, come Vallà di Riese, Piombino Dese o S. Giustina in Colle[4]. Anche a Cittadella prevalse la scelta del compromesso e pertanto il 28 aprile i militari tedeschi del locale presidio poterono schiacciare gli insorti della zona, portando distruzione e morte a Capitelbello di Campo S. Martino e a Pieve di Curtarolo.

A S. Giustina le operazioni militari, iniziate il mattino del 26 aprile con il disarmo dei tedeschi del locale presidio, una puntata verso Camposampiero e la cattura di singoli militari germanici in ritirata dal fronte, proseguirono il mattino del 27 aprile con un’imboscata ad un camion con rimorchio di passaggio e ad alcuni soldati. La situazione precipitò  intorno alle ore 10.00-10.30 con l’arrivo di un contingente di militari del presidio tedesco di Castelfranco e di fascisti della zona, che rimasero padroni del campo dopo una breve scaramuccia. In seguito la gente del paese si è chiesta se i rapporti di forza numerici fossero talmente sfavorevoli ai patrioti da giustificare una così debole resistenza. Nel diario storico della brigata Graziano Verzotto ha quantificato in un centinaio i tedeschi sopravvenuti, ma tale numero appare decisamente esagerato, anche se probabilmente erano un po’ più numerosi dei dodici militari ipotizzati  da un rapporto dei carabinieri di Camposampiero del 3 maggio 1946[5] (che del resto il 27 aprile 1945 non avevano in zona alcun loro osservatore). Di certo i tedeschi erano veterani di guerra, indubbiamente più esperti e determinati dei patrioti locali, privi di ogni esperienza militare. In astratto la difesa del centro abitato del paese non costituiva però una mission impossible, perché il numero egli aggressori non era così soverchiante come quello dei reparti della 29ma Panzergrenadier division tedesca che due giorni dopo, attaccati dai patrioti locali che li avevano erroneamente scambiati per nuclei di soldi sbandati, seminarono morte e distruzione lungo la strada che da S. Anna Morosina conduce a Castello di Godego passando per Abbazia Pisani e S. Martino di Lupari (con un bilancio complessivo di circa 125 vittime).

Come è nata la fake news della loro provenienza dal fronte? Un’equivoca attribuzione dell’eccidio agli «ultimi soldati fuggenti» compariva già in una pubblicazione locale edita il 4 maggio 1945[6]. Anche Verzotto ha imputato, in un passo del diario storico della brigata (steso nel marzo del 1946), l’eccidio del 27 aprile a «SS tedesche in ritirata, dirette verso nord»[7]. La stessa versione è stata proposta dal suo collaboratore Giuseppe Ruffato in una relazione del 3 agosto 1946[8]. Probabilmente tale provenienza consentiva di evocare una enorme disparità di forze, atta a giustificare la fuga quasi immediata dei patrioti di S. Giustina. Non è chiaro come questa falsità sia col tempo divenuta una credenza popolare, se è vero che nella presentazione del libro Vocazione eroismo, dato alle stampe nel 1985, anche il sindaco del paese Pier Luigi Gambarotto attribuiva la «rappresaglia» ad «un reparto nazista in ritirata» dal fronte[9]. Viceversa il parroco di Fratte don Fabris aveva scritto a caldo, nella cronistoria della sua parrocchia, che i patrioti di S. Giustina recatisi il pomeriggio del 26 aprile ad occupare Camposampiero erano stati messi in fuga da militari tedeschi arrivati «da Camposampiero» a bordo di «due camions»[10]. Quella stessa sera costoro si erano spinti fino a Fratte, ma il sopraggiungere delle tenebre li aveva convinti a rimandare al giorno dopo la rioccupazione del centro abitato di S. Giustina in Colle.  Anche lo storico cattolico padovano G. E Fantelli aveva, nel 1965, identificato gli attaccanti con «tedeschi» e «Brigate Nere di Camposampiero e Castelfranco»[11]. Duplice provenienza e responsabilità sono state ribadite da Giuseppe Ruffato, braccio destro di Graziano Verzotto e primo sindaco del paese dopo la Liberazione. In una pubblicazione edita nel 1985 (Alba di libertà) egli ha attribuito la rioccupazione di S. Giustina a «brigatisti di Camposampiero e di Castelfranco Veneto, nonché [a] tedeschi delle medesime località», intervenuti una prima volta nel corso della «notte fra il 26 e il 27 aprile»[12]. Anche per lo storico padovano Pierantonio Gios, autore nel 1995 de La cronistoria del parroco di Santa Giustina in Colle don Giuseppe Lago, gli attaccanti «giungevano da Castelfranco»[13]. Pure per Enzo Ramazzina (Santa Giustina in Colle. Gli anni della seconda guerra mondiale – 2002) le SS e le brigate nere provenivano «da Camposampiero e da Castelfranco Veneto»[14]. A chiamarli sarebbero dunque stati i fascisti del camposampierese, risentiti per la violazione degli accordi del dicembre 1944 da parte di Verzotto. Costoro non avevano potuto chiedere rinforzi a  Padova, perché quel giorno i tedeschi della città erano tutti impegnati a fronteggiare l’insurrezione partigiana. Viceversa, lasciati indisturbati dai patrioti castellani, i tedeschi del presidio di Castelfranco furono in grado di intervenire sia a Vallà di Riese, dove i locali patrioti – convinti da una sparatoria che fosse stato impartito l’ordine di insorgere – avevano ucciso alcuni soldati germanici in ritirata. Il pomeriggio precedente avevano rioccupato il centro di Piombino Dese, ferendo gravemente il farmacista Pajetta e quattro patrioti della brigata “Lubian”. Legati dietro ad un camion, questi ultimi furono trascinati fino al cimitero di Resana e quivi lasciati morire per dissanguamento nella notte fra il 26 e il 27 aprile[15]

La debole resistenza dei patrioti – Il giorno 27 aprile i tedeschi arrivarono a S. Giustina verso le ore 10.00-10.30, con un ritardo forse imputabile all’esecuzione della rappresaglia contro i patrioti di Vallà di Riese. Grazie alla mediazione di alcuni sacerdoti locali il numero degli ostaggi impiccati in Corso XXIX aprile a Castelfranco, di fronte al monumento di Giorgione, fu contenuto in tre. A S. Giustina gli intervenuti rimasero ben presto padroni del campo, nonostante che nel diario storico della brigata Verzotto e i suoi collaboratori abbiano parlato di una «suprema resistenza» opposta dai locali patrioti alla «schiacciante forza nemica» ed accennato perfino a qualche successo iniziale («la lotta fu accanita e durò mezz’ora. Cercammo con puntate ai fianchi resistendo al centro di prenderli alle spalle. La mossa riuscì dapprima perché uccidemmo due SS e li costringemmo alla sosta»)[16]. Lo stesso Fausto Rosso sarebbe rimasto ferito nel corso di «un assalto», cioè di una manovra offensiva. Di «asperrimo combattimento» durato una mezz’ora ha parlato anche Giuseppe Ruffato nel suo libro di memorie[17]. Si tratta di evidenti esagerazioni, peraltro molto frequenti dei diari partigiani.  Più facile credere ad un teste oculare come Luigi Bragadin, uno dei tanti ostaggi messi quel giorno al muro, quando in undiario steso nel 1985 su «cortese sollecitazione del nostro parroco don Augusto Zoccarato», ha parlato di un «breve conflitto»[18]. Possiamo immaginare che, sopraffatti da un reparto tedesco meno numeroso ma più agguerrito, i patrioti della III brigata “D. Chiesa” siano fuggiti da ogni lato, anche se il diario storico della formazione ha voluto la loro ritirata eseguita  «con ordine […] nei campi un po’ lontani dal centro del paese in attesa di rinforzi»[19].

Il ruolo dei fascisti – I documenti coevi non negavano affatto la presenza di fascisti italiani fra gli attaccanti tedeschi. Lo stesso diario storico della brigata, datato 15 marzo 1946, attribuiva la rioccupazione del centro di S. Giustina a «forze della SS tedesca con alcuni fascisti in borghese»[20]. Il concorso fascista venne attenuato dallo stesso Verzotto in una relazione del 15 aprile successivo, nella quale parlava di «SS provenienti da Camposampiero in divisa e in borghese, armati a tutto punto con armi pesanti»[21]. Eppure la partecipazione dei  fascisti doveva costituire un dato risaputo se la cronaca del parroco di San Giorgio delle Pertiche e vicario foraneo  don Faccioli imputava l’eccidio a «tedeschi delle SS aiutati da alcuni che da mesi vivevano in paese» e a «qualche fascista»[22]. La sua ricostruzione è stata confermata dal parroco pro tempore di S. Giustina don Armando Bison[23]. Pure al parroco di Camposampiero mons. Luigi Rostirola lo «efferato eccidio di S. Giustina» risultava «perpetrato da SS tedesche in combutta colle camicie nere»[24]. L’iniziale presenza di fascisti nostrani fra i tedeschi accorsi da Castelfranco trova una conferma nel diario di Luigi Bragadin. Parlando della irruzione di «soldati tedeschi» nella chiesa parrocchiale alla ricerca di partigiani ivi nascosti costui ha attribuito ad alcuni militari, che si esprimevano in dialetto veneto, la decisione di risparmiare la vita ad un «vecchio sacerdote» ivi rifugiatosi  («ciò, vuto che ghe sparemo? A no, rispose l’altro. El xe tanto vecio che non vae la pena»). Eloquenti le sue conclusioni: «Ciò dimostra che assieme ai tedeschi si unirono anche le brigate nere nostrane. Ah, quanto odio maturò anche tra i fratelli in questa immane guerra?!». Si può dunque ipotizzare che i fascisti responsabili della chiamata dei tedeschi si siano eclissati un po’ prima della fucilazione degli ostaggi per non dover rispondere, a guerra finita, del sangue fatto versare. Si è pertanto adeguato alla memoria di paese l’avv. Galileo Beghin, quando nel suo libro Il campanile brucia, edito nel 2005, ha considerato «pura fantasia popolare l’adombrata presenza, tra i tedeschi, di alcuni italiani»[25].

Il conteggio delle vittime civili – Per le vittime dell’eccidio di S. Giustina si propone generalmente il numero di ventiquattro, cifra comprendente diciassette caduti originari del paese (di cui quindici colpiti in territorio comunale ed altre due a Villa del Conte) e sette provenienti da altre località. Di questi ventiquattro solo ventitré sono stati inizialmente classificati come «vittime innocentissime» dell’eccidio[26]. Da questo elenco è stato per molto tempo escluso Fausto Rosso, il patriota rimasto gravemente ferito con le armi in pugno mentre fronteggiava gli attaccanti negli scontri del mattino del 27 aprile. Delle ventitré vittime in senso stretto, «n. 17 (fra cui i 2 sacerdoti)» vennero «fucilati alla mura dove è il monumento» e n. «6 fucilati in altre zone»[27]. Quanto a Fausto Rosso,  è stato considerato «caduto in combattimento» sia dal comandante della formazione paesana Fausto Perin (nel diario storico della brigata), sia da Graziano Verzotto (nella relazione del 15 aprile 1946). Altre fonti lo hanno invece voluto spirato poco dopo in canonica, dove era stato portato, a causa delle gravi ferite riportate. Viceversa il registro parrocchiale dei defunti lo ha indicato come «barbaramente ucciso a colpi di pistola dai Tedeschi» intorno alle ore 13.30[28]. Secondo Giuseppe Ruffato costoro lo avrebbero finito in modo diverso, cioè «con una raffica di mitra»[29]. Chi lo ha escluso dal conteggio delle vittime innocenti dell’eccidio ha inteso rimarcare il fatto che le ferite mortali le aveva riportate nel corso di uno scontro armato coi tedeschi, mentre chi lo ha considerato caduto in combattimento ha probabilmente voluto sottolineare il fatto che, prima di fuggire, i patrioti di Verzotto avevano provato ad abbozzare una qualche resistenza.

Kesselring non c’entra. La fisiologica tendenza a semplificare dinamiche e spiegazione degli eventi ha indotto gli abitanti di S. Giustina  a postulare un preciso rapporto fra i tedeschi rimasti uccisi negli scontri e le vittime della rappresaglia. Chi ha ipotizzato una meccanica applicazione dei criteri adottati nell’eccidio delle fosse ardeatine (24 marzo 1944) ha spesso tirato in ballo le cosiddette “direttive Kesselring”. In realtà i bandi emanati da questo generale nel giugno-luglio del 1944 invitavano i comandi tedeschi a effettuare rappresaglie «dure e giuste» nei confronti dei partigiani e della stessa popolazione civile, ma senza indicazione di numeri e ad ogni modo queste direttive furono ritirate nel settembre dello stesso anno. Di certo esse non hanno esercitato alcuna influenza sull’eccidio di S. Giustina, paese nel quale i tedeschi registrarono una sola perdita umana, di cui peraltro gli attaccanti non vennero mai a conoscenza. Galileo Beghin si è pertanto adeguato alla credenza popolare quando a  p.  165 del suo libro ha scritto che «dalla prima fila il comandante tedesco deve scegliere undici ostaggi, da aggiungere a questi nove, per compensare, in base alla direttiva Kesselring e in ragione di uno a dieci, la morte dei due soldati tedeschi»[30]. Per far quadrare i conti ha però dovuto elevare a due le vittime tedesche: quelle disegnate nella copertina del suo libro. In realtà neppure gli ostaggi fucilati nei pressi della parete sud della chiesa possono essere elevati al numero di venti. Beghin ha infatti considerato come diciottesima vittima Giovanni Marconato che invece una pubblicazione uscita nell’aprile del 1946 ha voluto «fucilato in casa dei padroni presso cui prestava servizio»[31]. Come diciannovesimo caduto ha indicato Fausto Rosso, generalmente escluso dal conteggio delle vittime della rappresaglia perché rimasto mortalmente ferito in combattimento. L’assenza di una ventesima vittima è stata spiegata da Beghin con l’avvenuta liberazione, all’ultimo momento, di un ostaggio la cui estraneità all’insurrezione sarebbe stata attestata da un sergente tedesco ospitato in casa sua[32]. Pertanto in materia di numeri è da considerare più attendibile Graziano Verzotto, quando in una relazione del 15 aprile 1946 ha quantificato in «diciassette» gli ostaggi fucilati presso la parete sud della chiesa, ripartendoli in sette «partigiani» – cioè soggetti inseriti nelle formazioni combattenti – e in dieci «patrioti», ossia civili simpatizzanti per gli insorti[33]. A questi ha aggiunto i sei individui «fucilati in altre zone del paese». Facile identificarli coi tre civili (Vincenzo Casali, Egidio Basso, Alfonso Geron) uccisi in altre zone del paese, coi suoi due paesani (Giovanni Comacchio e Casarin Attilio) uccisi a Villa del Conte e con Giovanni Marconato[34]. Quantificando invece in 18 gli ostaggi fucilati «in piazza», il suo collaboratore Stefano Perin ha evidentemente inserito Marconato nel gruppo dei civili fucilati presso la chiesa. Anche per lui dei restanti cinque tre erano stati uccisi «fuori centro» e «altri due» a Villa del Conte[35].  

Il balletto delle perdite germaniche  –  Riflettendo sempre convinzioni largamente diffuse in paese, nella propria pubblicazione l’avv. Galileo Beghin ha spiegato l’eccidio del 27 aprile come spietata rappresaglia germanica per l’uccisione, avvenuta il giorno precedente, di due commilitoni in forza al presidio di Villa Custoza e «di ritorno da Villa del Conte, dove si erano recati a prelevare la posta al loro Comando». Una volta catturati, costoro sarebbero stati portati «da Fausto Rosso che sta assediando Villa Custoza poco distante». Secondo l’autore, «non si è mai conosciuto il seguito della vicenda, anche se è a tutti noto che i due tedeschi furono poco dopo giustiziati»[36]. Quanto alle responsabilità della loro fucilazione, «corrono due nomi sull’autore materiale della doppia esecuzione, ma la verità non si saprà mai»[37]. Il diario Bragadin ha invece attribuito il fatto di sangue a Fausto Rosso («da quanto poi si seppe fu colui che uccise quel povero porta ordini di cui ve ne parlai al principio del racconto»)[38].  

In realtà il semplice buon senso dimostra l’inattendibilità delle due vittime tedesche. Si consideri che: a) portaordini e postini si muovevano solitamente da soli e non in coppia; b) l’archivio comunale di S. Giustina ha consentito all’avv. Galileo Beghin di estrapolare le generalità di una sola vittima: il soldato  Rudolf  Beck, nato a Stoccarda l’11 aprile 1904. Poiché ambedue le salme sarebbero state recuperate nel 1964 da una delegazione tedesca portatasi a S. Giustina, non si spiega perché in quella circostanza non siano emerse anche le generalità della seconda vittima;  c) dato che anche nella narrazione di Beghin i due cadaveri sarebbero stati frettolosamente sepolti in cimitero e perciò sottratti alla vista dei loro commilitoni, in che modo la loro uccisione avrebbe potuto incidere sulla rappresaglia del 27 aprile 1945? Anche per Beghin, infatti, i corpi dei due poveri portaordini furono scaraventati da mani pietose dentro il cimitero e provvisoriamente tumulati dal custode nella zona denominata «limbo» (quella «destinata alla sepoltura dei bambini morti senza battesimo»). Saputa la cosa il parroco don Lago, «indignato, commissiona due bare alla falegnameria Fiscon». Il precipitare degli eventi impose poi il rinvio del dissotterramento e della degna sepoltura dei due portaordini alla «domenica successiva, in concomitanza con i funerali delle vittime dell’eccidio»[39].

Anche su questo argomento risulta più attendibile la cronistoria del parroco di Fratte don Fabris, che ha riferito «alla sera» del giorno 26 aprile «verso le 19.00» l’uccisione di «un tedesco» dalla parte «di S. Giustina che prospetta la Villa Custoza»[40]. Lo stesso diario storico della brigata ha parlato di un tedesco ucciso e di un altro ferito il giorno 26 aprile nel corso di un «assalto ad un munitissimo caposaldo tedesco di stanza fra Fratte e S. Giustina»[41]. Trattandosi di nemici, non c’era ragione di sottostimare il numero delle vittime. In compenso quest’ultima fonte ha elevato a tre i soldati tedeschi complessivamente  caduti a S. Giustina, aggiungendo al portaordini ucciso il pomeriggio del 26 aprile due SS colpite negli scontri del 27 mattina. L’affermazione non appare minimamente credibile. Esagerazioni in materia di perdite inflitte al nemico caratterizzano tutte le relazioni partigiane post belliche, ma Verzotto aveva un motivo in più per gonfiare il numero dei nemici uccisi: quello di enfatizzare l’entità degli scontri  avvenuti il mattino del 27 aprile e, quindi, la resistenza frapposta dai suoi patrioti agli attaccanti. Ha riproposto la stessa cifra nella citata relazione del 15 aprile 1946[42], mentre nella denuncia presentata contro Ada Giannini in data 1 ottobre 1945 ha fatto marcia indietro parlando genericamente di «alcuni morti e feriti» fra i nemici[43]. Giustamente Galileo Beghin ha osservato che «fortunatamente nelle due battaglie del 27 aprile nessun tedesco perse la vita o venne ferito», perché «se ciò fosse avvenuto, la rappresaglia avrebbe assunto contorni spaventosi»[44]. La sua riflessione trova conferma nella rabbiosa reazione espressa due giorni dopo dai militari della 29a Panzergrenadier division comandata dal gen. Polack alla scoperta del cadavere di un commilitone ad Abbazia Pisani: una furiosa sparatoria in tutte le direzioni, costata la vita ad una decina di civili. Peraltro il militare passato a miglior vita si era colpito da solo mentre col calcio del fucile percuoteva la porta di un’abitazione alla ricerca di un partigiano[45]. Un’ultima riflessione: se le due perdite umane attribuite da Verzotto agli attaccanti avessero per la gente del paese costituito allora un dato acquisito, come avrebbe potuto l’ex comandante partigiano padovano Lanfranco Zancan sostenere,  nel discorso pronunciato in piazza a S. Giustina di fronte ad un folto pubblico il 26 aprile 1946, primo anniversario dell’eccidio, che la «rappresaglia» nemica aveva costituito la sproporzionata risposta a «qualche colpo di moschetto partigiano»?[46]  

Una sola vittima tedesca –  A parlare, in tempi non sospetti (aprile 1967), di un solo «portaordini tedesco, ucciso il giorno precedente» a quello dell’eccidio e «gettato nei pressi del cimitero» è stato Pietro Fiscon, uno dei figli del commissario podestarile Evanzio. Proprio quest’ultimo, di professione falegname, sarebbe stato «pregato» dal parroco don Lago il mattino del 27 aprile di «procurargli una bara per dare sepoltura» al povero militare germanico ucciso, dato che «l’autorità comunale, alla quale» si era inizialmente «rivolto», aveva risposto di non sapere «niente della presenza della salma»[47], provvisoriamente e superficialmente interrata nel locale cimitero onde sottrarlo alla vista di suoi camerati. Evanzio Fiscon aveva raccolto l’invito, ma l’irrompere dei soldati tedeschi nella sua bottega artigiana aveva interrotto la costruzione della bara. Un riscontro indiretto dell’assenza di vittime tedesche a S. Giustina in quel fatidico 27 aprile lo troviamo nel verbale compilato dalla Commissione militare alleata (composta da tre ufficiali, uno stenografo ed un interprete), che il 24 e 25 luglio si portò in paese per condurre una prima sommaria inchiesta sull’eccidio di tre mesi prima. In tale sede nessuno dei testimoni interpellati – neppure chi ricopriva un ruolo istituzionale, come il segretario comunale Francesco Santarella – accennò a caduti fra gli attaccanti, nemmeno quando fu loro chiesto di motivare la terribile rappresaglia («lei sa perché i Tedeschi fecero queste cose?»). In compenso diversi testi si dilungarono sulle prepotenze tedesche e sulle razzie subite in quel giorno. Eppure quello delle vittime germaniche era un argomento che stava molto a cuore alla commissione d’inchiesta alleata, perché dalla loro presenza o meno dipendeva – in base al diritto bellico – la liceità o meno della reazione tedesca. Tant’è vero che il giorno 16 luglio 1945, prima di intraprendere un’analoga inchiesta (durata tre giorni) per la strage nazifascista che il 29 aprile aveva interessato i vicini comuni di S. Giorgio in Bosco, Villa del Conte, S. Martino di Lupari e Castello di Godego, una diversa commissione militare americana era andata a visitare la tomba di due militari tedeschi sepolti nel cimitero di Borghetto per escludere che fossero rimasti vittime di un’imboscata partigiana[48]. Accertarono che erano stati colpiti da un mitragliamento aereo alleato e poiché tra le (circa) 125 vittime della rappresaglia del 29 aprile non figurava alcun militare anglo-americano, gli atti dell’inchiesta furono passati alle autorità italiane, che li nascosero per 50 anni nel cosiddetto “armadio della vergogna”.

Nessun riferimento a vittime fra i militari germanici compare nel processo celebrato il 3 marzo 1947 dalla Corte d’assise straordinaria di Padova a carico di Ada Giannini, l’ausiliaria toscana prima catturata dai patrioti di Verzotto e poi liberata dai tedeschi sopraggiunti da Castelfranco. Essendo stata accusata di aver ripetutamente istigato il comandante germanico a dar corso ad una severa rappresaglia, risulta di palmare evidenza che lei e il suo difensore  avrebbero avuto tutto l’interesse a scaricare la colpa sulle autorità tedesche se davvero la fucilazione degli ostaggi avesse rappresentato la reazione all’uccisione di due militari della Wehrmacht.  

Volubilità della memoria – Nel caso dell’eccidio di S. Giustina, il processo di adeguamento delle convinzioni individuali a quelle collettive paesane ha lasciato tracce scritte ed orali. Nel suo diario Luigi Bragadin è stato prodigo di dettagli quando ha parlato dell’uccisione, da parte dei patrioti di Verzotto, «qualche giorno avanti la tragedia» – in realtà uno solo – di «un povero e anche abbastanza anziano soldato (da quanto appresi) solo perché non si era fermato al loro comando». Si sarebbe trattato di «un portalettere che, in bicicletta, portava ordini da un comando all’altro». Costui sarebbe stato, «da quanto seppi, ucciso in mezzo alla strada». Si è viceversa mostrato sbrigativo ed  estremamente vago («e così pure anche ad un altro toccò la stessa sorte») quando ha riferito dell’ipotetica seconda vittima, tanto da far pensare che l’evento non facesse inizialmente parte dei suoi ricordi personali. Comunque anche secondo lui i corpi dei due ipotetici malcapitati «furono poi scaraventati nel nostro cimitero, facendo il salto della mura»[49], particolare che suona conferma della mancata conoscenza della loro sorte da parte dei commilitoni.

La tendenza della memoria individuale ad adeguarsi, col tempo, al sentire comune trova riscontro nella difformità delle due testimonianze rese dal camposampierese Colombo Tollardo alla distanza di una quindicina di anni. L’allora apprendista alla falegnameria Fiscon ha parlato, nell’intervista inserita nella video cassetta edita nel 1995 dalla parrocchia di S. Giustina, di un’unica cassa da morto in costruzione presso il suo datore di lavoro, destinata ad accogliere la salma del portaordini tedesco ucciso nei pressi di villa Custoza. In quella inserita nella docu-fiction La memoria di Giano dal regista veronese Mauro Quattrina una quindicina di anni più tardi ha invece quantificato in due i tedeschi uccisi il 26 aprile e in due le bare ordinate alla falegnameria Fiscon. Si tratta di un semplice adeguamento della memoria individuale a quella di paese e non certo di una falsa testimonianza.

Anche l’autore di questo testo ha sperimentato il condizionamento esercitato su di lui dalla memoria ambientale. Nelle prima stesura del volume Il sangue e la memoria (2005), dedicato alle due stragi nazifasciste del 27 e il 29 aprile 1945, aveva parlato di «uno o due» militari tedeschi uccisi a S. Giustina durante l’insurrezione, lasciando indeterminato il loro numero a causa della divaricazione delle fonti. Viceversa, nella fase di correzione delle bozze, influenzato dal libro dell’avv. Beghin (circostanziato ed apparentemente ben documentato), ha corretto in «due» il numero dei caduti. Del suo errore ha cominciato a fare ammenda in un’intervista rilasciata nel 2006[50] e con maggior convinzione nelle pubblicazioni successive, dopo l’acquisizione di nuovi documenti rinvenuti nell’archivio di Stato di Padova (2008) ed una più approfondita conoscenza delle dinamiche politiche interne al movimento resistenziale veneto.

Risentimento fascista e spietatezza nazista.  Allo stato attuale delle sue conoscenze l’autore ritiene che sulla determinazione ad eseguire un eccidio e sul numero degli ostaggi da fucilare abbiano influito più fattori.Innanzitutto la volontà del comandante tedesco di impartire una severa lezione sia ai patrioti insorti, che alla popolazione del paese, che li aveva lasciati agire. In secondo luogo il risentimento dei fascisti della zona per la violazione, da parte di Verzotto, degli accordi intercorsi nel dicembre precedente, sui quali essi evidentemente contavano per una fuoruscita indolore dall’esperienza del ventennio[51]. In terzo luogo il desiderio di rivalsa dei militari del presidio tedesco di S. Giustina disarmati il giorno precedente e dei commilitoni catturati la mattina del 27 aprile, in alcuni casi umiliati o presi in giro. Illuminanti, in questo caso, le sevizie inflitte al giovane Gianni Ortigara. Di certo un’incidenza sulla rappresaglia le ebbero anche le istigazioni alla vendetta di Ada Giannini, l’ausiliaria toscana catturata insieme ai tedeschi in ritirata, spogliata del denaro e fors’anche malmenata.

La vana ricerca dei capi dell’insurrezione –  Che l’obiettivo iniziale dei tedeschi e dei fascisti sopraggiunti in paese il mattino del 27 aprile fosse quello di mettere le mani sui responsabili dell’Insurrezione lo suggerisce una logica elementare. Una conferma l’ha data lo stesso Graziano Verzotto quando nel diario storico della brigata ha scritto che i tedeschi scelsero le persone da mettere al muro tra i «partigiani e i patrioti che non erano riusciti a mettersi in salvo»[52]. Un’autorevole conferma viene dalla cronaca del vicario foraneo don Faccioli, secondo il quale «i tedeschi della SS […], arrivati in S. Giustina colmi di ira e di rabbia, conosciuta la minaccia di partigiani, quai cani idrofobi, armati fino ai denti, si son dati a scovare i partigiani». Secondo quel sacerdote la cattura di «uomini e giovani delle famiglie della piazza ed altri capitati per caso»[53] avrebbe costituito una soluzione di ripiego dopo gli scarsi risultati ottenuti dalla ricerca degli insorti. Anche secondo il diario Bragadin, una volta «impadroniti del paese», sentitisi «beffati dai partigiani che fuggirono», i tedeschi «cercarono di casa in casa per scovare qualche partigiano nascosto»[54]. L’operazione avrebbe avuto un successo parziale  perché «solo due o tre hanno potuto acciuffarne»[55]. A questo punto «i tedeschi, non ancora paghi, continuarono a dar la caccia ai partigiani» anche nelle strade e nelle case del paese e perfino in chiesa, in quel momento chiusa, per cui cercarono di abbatterne una porta con una bomba a mano[56]. Il notevole lasso di tempo intercorso fra la cattura degli ostaggi e la loro fucilazione accredita una residua speranza dei tedeschi di mettere le mani sui responsabili dell’insurrezione, a cominciare dal loro comandante. Il diario storico della brigata sostiene che le «persone poste al muro, le mani sulla nuca, dovettero attendere per ben due ore di penosa agonia l’esecuzione finale»[57]. Un simile intervallo di tempo non trova altra giustificazione. L’angosciosa attesa degli ostaggi sarebbe durata addirittura «tre lunghe ore», secondo Luigi Bragadin, uno degli individui messi al muro[58]. Altre fonti hanno parlato di appena mezz’ora, ma di certo i tedeschi non avevano assolutamente tempo da perdere, attesi com’erano da altri impegni, come la repressione dell’insurrezione partigiana prima a Villa del Conte (realizzata con 5 vittime) e poi a Marsango. Quest’ultima fu bloccata dapprima dalla resistenza frapposta dai partigiani garibaldini di Mario Finco nei pressi del casello dell’Ostiglia di Marsango (con un bilancio finale di un soldato tedesco e di un partigiano caduti in combattimento e di due civili uccisi a freddo per rappresaglia) e poi dal sopraggiungere delle tenebre[59].

A.S. Giustina tempi così dilatati lasciano trasparire una volontà germanica  di imprimere alla rappresaglia un carattere spettacolare ed anche pedagogico, in modo che suonasse di ammonimento a chi non aveva rispettato i patti. Da escludere assolutamente uno sfogo di rabbia incontrollata, come quella che ebbe luogo due giorni dopo ad Abbazia Pisani o quella espressa il giorno precedente a Piombino Dese a danno di quattro patrioti della brigata  “Lubian”. L’autore considera invece del tutto oziosa ogni discussione sull’esistenza o meno di un  obbligo morale da parte di Graziano Verzotto di presentarsi ai tedeschi per rispondere in prima persona del suo operato e di quello dei suoi uomini. Lo dimostra il dibattito apertosi sull’attentato di via Rasella, a Roma, dove un attentato contro altoatesini in divisa nazista fornì ai comandi germanici il pretesto per attuare la tremenda rappresaglia delle Fosse ardeatine. 

Perché furono uccisi i due sacerdoti ––  Interrogativi di altro genere li pone l’uccisione del parroco don Lago e del cappellano don Giacomelli, perché si tratta di un episodio senza precedenti nella Resistenza veneta e nella stessa fase insurrezionale. Risultò infatti del tutto casuale l’uccisione, il 29 aprile 1945, del cappellano di Galliera Veneta don Fausto Callegari, fatto bersaglio delle pallottole sparate da due soldati tedeschi asserragliati in un tombino in località Maglio e decisi a vendere cara la pelle. Si era infatti portato a impartire i conforti religiosi a paesani colpiti in precedenza dai due militari, ma i vetri dell’auto non permettevano certo a questi ultimi di distinguere un sacerdote da un assalitore[60]. E’ risaputo che nei mesi della guerra civile tanto i nazifascisti, quanto gli insorti erano soliti apprezzare l’opera di mediazione e di moderazione svolta dal clero. Lo storico Ernesto Brunetta l’ha celebrata come una moderna e benemerita “funzione benedettina”, ma nel Veneto si presta ad essere interpretata anche come “funzione badogliana”, in quanto mirava anche ad abbassare il livello dello scontro e a prevenire un’eccessiva esacerbazione degli animi, foriera di future e sanguinose rese dei conti. Risulta pertanto convinzione dell’autore che nelle persone di don Giacomelli e di don Lago i tedeschi e i fascisti abbiano inteso punire i sacerdoti che si erano resi garanti degli accordi del 20 dicembre 1944 rispondenti ad una particolare logica politica, come si può evincere da uno specifico saggio[61]. In realtà uno solo dei due sacerdoti vi era stato coinvolto direttamente e precisamente don Giacomelli, il cappellano arrivato in parrocchia il 30 novembre 1944. Stando alla testimonianza del partigiano garibaldino Amerigo Torresin di Campodarsego[62] costui, unitamente al parroco di S. Marco don Antonio Dal Santo, aveva accompagnato Graziano Verzotto dal comandante della brigata nera di Camposampiero Tommaso Calvi, assumendo di fatto la veste del mallevadore. L’antefatto spiegherebbe la bestiale violenza di cui il sacerdote fu fatto segno subito dopo la sua cattura. Secondo Bragadin, infatti, «al povero cappellano don Giacomelli» i tedeschi «sferrarono un terribile rovescio con il calcio di una pistola facendogli saltare quasi tutti i denti della sua mascella di sinistra» e subito dopo lo accompagnarono «alla mura assieme agli altri condannati”[63]. Anche secondo la cronaca riportata da mons. Gios don Giacomelli «fu abbattuto da una potente percossa e, privo di sensi in terra, fu colpito più volte con l’arma», ragion per cui «il suo corpo» risultò «il più sfigurato fra le vittime»[64].  Don Giuseppe Lago si era invece tenuto sempre lontano dalla politica, ma sui di lui i nazifascisti potrebbero aver sfogato il risentimento maturato nei confronti di altri sacerdoti, come don Ugo Orso, don Ireneo Danieli, don Mario Zanchin o don Antonio Dal Santo coinvolti nelle trattative di dicembre e non raggiungibili la mattina del 27 aprile. Di certo i ripetuti rimproveri mossi da don Lago alle ragazze di S. Giustina sorprese ad amoreggiare coi soldati alloggiati nella sua canonica non lo avevano messo in buona luce presso i militari tedeschi del locale presidio. Anche il maestro di S. Marco di Camposampiero Vito Filipetto, esponente della neonata Democrazia cristiana, potrebbe aver pagata cara la sua vicinanza al parroco di S. Marco don Antonio Dal Santo, altro garante dell’accordo. Nei mesi precedenti aveva reclutato molti giovani della parrocchia per inserirli nella nuova formazione di Verzotto, concepita come una specie di guardia civica deputata  a vigilare su un pacifico trapasso  dei poteri. Il risultato complessivo fu che, una volta considerati corresponsabili della violazione degli accordi di dicembre, don Lago e don Giacomelli si trovarono nell’impossibilità di svolgere a S. Giustina la preziosa opera di mediazione e di moderazione: quella esplicata lo stesso giorno da altri sacerdoti della castellana. Costoro riuscirono ad abbassare a tre il numero dei giovani impiccati il 27 aprile a Castelfranco in Corso XXIX aprile, di fronte al monumento del Giorgione, come rappresaglia per l’uccisione di alcuni soldati germanici avvenuta a Vallà di Riese il giorno precedente.       

Una tragedia rimasta priva di spiegazioni e di valorizzazione in sede politica – Per rendere un’idea del dolore provocato dall’eccidio basti considerare che alcune famiglie del paese avevano perduto l’unica fonte di reddito e l’intera comunità parrocchiale le sue riconosciute guide in campo spirituale e temporale. Di qui l’assoluta necessità, per una corretta elaborazione del lutto, di idonei interventi esplicativi da parte delle autorità civili e religiose. Di per sé l’intensità del dolore non costituiva un ostacolo insormontabile, se si pensa come al fascismo fosse riuscito di presentare nelle scuole e nelle piazze l’immane e insensato bagno di sangue della prima guerra mondiale come una fulgida epopea militare e una pagina di riscatto nazionale, nonostante papa Benedetto XV avesse liquidato quel conflitto come “inutile strage” ed in sede storica esso abbia spianato la strada ai grandi totalitarismi del ventesimo secolo (bolscevismo, fascismo e nazismo), ponendo le premesse della seconda guerra mondiale.

Dopo l’eccidio di S. Giustina né i locali dirigenti del partito cattolico, portati dal crollo del fascismo ai vertici delle amministrazioni locali come di quelle nazionali, né i rappresentanti del clero che li appoggiavano vollero o seppero fornire spiegazioni all’altezza delle esigenze e delle necessità. L’opuscolo del 4 maggio 1945 raccomandava «il perdono agli assassini» ma, come ha dimostrato Nelson Mandela nel chiudere nel suo Paese la stagione dell’apartheid, esso avrebbe dovuto coniugarsi con l’elencazione dei misfatti e l’identità dei loro autori, perché in Sudafrica l’amnistia fu applicata ai soli crimini confessati e unicamente agli individui che se ne erano assunti la responsabilità. In tal modo in quel Paese un atto di grande generosità poté saldarsi ad un’operazione di verità e di memoria. Al contrario a S. Giustina in Colle l’impunità garantita alla maggioranza dei responsabili dell’eccidio si accompagnò ad una rapida e generale amnesia, anticipando un processo deliberatamente perseguito dalle autorità politiche nazionali, che si rifiutarono di consegnare i criminali di guerra fascisti ai Paesi aggrediti che avevano richiesto di processarli. In nessuna delle “memorie di pietra” o di “carta” pervenuteci, cioè nei testi incisi sulle lapidi o nei discorsi pronunciati dalle autorità in occasioni ufficiali e dati alle stampe  l’eccidio di S. Giustina è stato fatto discendere da ideologie esaltatrici della forza e della violenza come il fascismo o il nazismo. La lapide deposta il 26 aprile 1946 «a solenne ammonimento di S. Giustina in Colle» imputava l’eccidio del 27 aprile  alla «rabbia bestiale dei tedeschi disfatti», anziché al nazismo e mancava di qualsivoglia riferimento alle corresponsabilità fasciste. Nell’omelia pronunciata durante la messa celebrata il 4 maggio 1945 «in die 7 dall’uccisione dei Sacerdoti e persone del paese da parte delle SS tedesche in ritirata»[65] padre Oddone Nicolini – il sacerdote che coi conforti religiosi recati agli impiccati di Bassano del Grappa contribuì ad oscurare le responsabilità fasciste per l’impiccagione o la fucilazione di oltre 40 partigiani bassanesi il 26 settembre 1944 – si limitò ad esporre «elevate espressioni sulla fede, sulla cristiana rassegnazione e sulla vita eterna»[66]. Del tutto assenti i riferimenti alla pagina di storia appena conclusasi anche nei successivi interventi del vescovo di Padova Carlo Agostini e del prefetto di Padova Gavino Sabadin.  A detta del presule l’eccidio rappresentava il frutto della «semente di odio, che a larga mano hanno sparso lo spirito anticristiano e la guerra». Neppure l’uccisione di don Lago aveva a che fare con la politica, perché «la sua politica fu la vigilanza contro il male, la carità e la premura di tutti». A giudizio del nuovo prefetto di Padova «la lotta combattuta dai partigiani per la libertà fu anche una lotta per il nostro patrimonio religioso» e il maestro Vito Filipetto vi aveva preso parte non come democratico o antifascista, ma come «soldato e araldo dell’idea cristiana nel mondo»[67]. Su questa linea pure il discorso pronunciato in piazza a S. Giustina da Lanfranco Zancan il 26 aprile 1946. Per lui la «invasione» del suolo patrio da parte delle truppe naziste, che tanti lutti aveva arrecato ai connazionali, non era da mettere in conto  all’insipienza con cui il Re e Badoglio avevano gestito la fase successiva all’armistizio di Cassibile, ma al fatto che «la cerchia delle Alpi, baluardo naturale alla invasione dei barbari», era stata «sconsideratamente aperta» (non si sa bene da chi e come). A sua volta «tanta feroce barbarie» dei tedeschi era imputabile allo «odio seminato da Hitler», che aveva fatto «presa feconda» su una nazione «scristianizzata [sic!] da Lutero»[68]. Perfino nel discorso commemorativo pronunciato da don Giuseppe Verzotto nel 1975, trentesima ricorrenza della strage,  il «motivo per cui» gli ostaggi erano «stati soppressi» veniva identificato col fatto che «essi con la parola e con la vita predicavano la verità che gli ipocriti non sopportano e non vogliono sentire, reclamavano quella libertà che gli schiavisti vogliono sopprimere, volevano quella fratellanza che gli egoisti non comprendono»[69]. La classica aria fritta.

Condanne solo al femminile – Premesso che quella celebrata dai vincitori dopo una guerra civile finisce per essere quasi sempre una giustizia di parte, le uniche a pagare di persona per i due eccidi nazifascisti che il 27 e il 29 aprile 1945 insanguinarono l’Alta padovana furono due donne: l’una vittima di un atto di giustizia sommaria compiuto a ridosso degli eventi; l’altra di una sentenza emessa dalla Corte d’assise straordinaria di Padova alla distanza di quasi due anni. Il particolare accanimento dimostrato da Verzotto nell’assicurare alla giustizia quest’ultima – certa Ada Giannini, una ragazza toscana che seguiva i tedeschi in ritirata perché probabilmente di fede fascista o inquadrata come ausiliaria – si spiega con la speranza di dirottare su persone “foreste”, cioè estranee al territorio, una parte del risentimento che aveva investito la sua persona. Egli riuscì a farla processare dopo diversi tentativi andati a vuoto, costati l’ingiusta accusa e detenzione di altre due ragazze, poi risultate innocenti. Riconosciuta da molti testimoni di S. Giustina, il 3 marzo 1947 Ada Giannini fu condannata a 30 anni di carcere per la «principalissima parte» avuta a S. Giustina vuoi per «le indicazioni date ai tedeschi» nella scelta degli ostaggi da fucilare, vuoi per «le insistenze che essa stessa faceva […] perché i catturati fossero fucilati»[70], oltre che l’oltraggio recato al cadavere del parroco. In quella sede le furono riconosciute come attenuanti il furto di denaro e le percosse patite. Non è dato sapere quanto abbia circolato in paese la notizia della sua cattura e della sua condanna, ma è un fatto che nella commemorazione dell’eccidio, tenuta nel municipio di S. Giustina nel 1995, nessuno dei presenti ricordava più il nome di quella fantomatica “donna bionda”. Rimasero invece impuniti i veri responsabili dell’eccidio. Se mettere le mani sul comandante tedesco che aveva diretto le operazioni militari e preteso la rappresaglia costituiva, nel caotico dopoguerra, una mission pressoché impossible,  l’obiettivo di dargli un nome ed un cognome era senz’altro a portata di mano, visto che a Castelfranco qualcuno doveva pur aver conosciuto quell’ufficiale. Ancora più facile avrebbe dovuto essere l’identificazione dei fascisti di Camposampiero e dintorni che avevano sollecitato l’intervento dei tedeschi. Anche chi ne aveva segnalato la presenza fra gli attaccanti qualche informazione doveva pur averla. E’ invece noto che nel dopoguerra del Veneto (e non solo) tutte le sollecitazioni delle autorità costituite andarono nella direzione di mettere una pietra sopra il passato. Pertanto nessuna imputazione venne mossa per l’eccidio del 27 aprile a Vilfredo Allegro, figlio di Alfredo e responsabile della brigata nera di Camposampiero nell’ultimo periodo di guerra. Nella sentenza emessa il 23 agosto 1945 egli fu ugualmente ritenuto colpevole di una serie di atrocità e condannato dalla Corte d’Assise straordinaria di Padova a 30 di carcere, pena contenuta in considerazione della sua giovanissima età (18 anni). Invece il tema dell’accordo del 20 dicembre 1944 non figurò affatto nel processo celebrato contro suo padre Alfredo Allegro, condannato a morte nel corso dello stesso processo per una serie di delitti commessi nel corso di alcuni rastrellamenti condotti in Piemonte. Poiché  l’anno successivo costui figurava rifugiato con tutta la famiglia in Brasile e nel 1995 Verzotto si è espressamente attribuito il merito di averlo salvato dalla pena capitale[71], è probabile che, durante una momentanea scarcerazione per vizi procedurali costui abbia usufruito di una delle tante rat lines (letteralmente: “linea dei ratti”, con riferimento alle corde delle navi su cui i topi si rifugiavano dopo un naufragio e prima di essere inghiottiti dalle acque) messe dal clero o dal Vaticano a disposizione di criminali nazisti, fascisti o ustascia ricercati dalla giustizia. Il tema della trattativa con Verzotto rientrò invece nel processo a carico di Tommaso Calvi, condannato il 5 febbraio 1946 a 30 anni di carcere. In quella sede gli furono negate le attenuanti generiche perché l’accordo del 20 dicembre 1944 fu considerato dai magistrati «una vera e propria resa a discrezione» ai fascisti e «un nuovo fatto di collaborazione militare col nemico»[72]. Analogo esito ebbero le indagini sulle responsabilità della strage S. Anna Morosina-Castello di Godego del 29 aprile 1945. Divenuto irreperibile il generale Frtiz Polack, comandante della 29a Panzergrenadier division in rovinosa ritirata dal fronte, a pagare per tutti fu Catterina Vestali, una giovane donna che godeva fama di essere di costumi leggeri e ritenuta istigatrice di una piccola spedizione punitiva realizzata da reparti tedeschi contro una base partigiana in località Maglio di S. Martino di Lupari. Giunto in centro a questo paese, un drappello di militari germanici era stato infatti convinto a ritornare indietro di qualche chilometro – perdendo il contatto col resto della formazione e registrando un ritardo probabilmente costato il giorno successivo la loro cattura da parte di reparti americani sopraggiunti da Vicenza e Cittadella – per mettere le mani su un deposito di armi e di merci nascosto presso la famiglia dei fittavoli Stocco, finendo per ammazzare circa 25 tra patrioti e civili (fra cui alcune donne). Catterina Vestali finì giustiziata dai partigiani del btg. “Pegorin” nel cimitero di S. Martino il 3 maggio 1945[73]. Del tutto impunito rimase invece il massacro di via Cacciatora, località in cui furono uccisi a freddo i 75 ostaggi superstiti, episodio che un libro uscito nell’aprile del 1946 – e subito messo all’indice dal clero locale – addebitava al «venduto fascista traditore e delinquente». Stando alla testimonianza del parroco di S. Anna Morosina don Albino Tedesco, anch’egli catturato con una quarantina di suoi parrocchiani, i «carnefici» avrebbero infierito sui caduti con colpi di grazia sparati a bruciapelo alla testa per «assicurarsi di averli uccisi» perché «temevano di venire scoperti in quanto molti parlavano il nostro dialetto e dimostravano di essere di paesi non lontani»[74]. Ironia della sorte, non patì strascichi giudiziari il fascista Toni Alba (Antonio Baggio), nel dopoguerra considerato dai partigiani di S. Martino di Lupari passibile della pena di morte e nominativamente tirato in ballo nel 1999 dal figlio di una delle vittime. In seguito costui dev’essere stato pienamente riabilitato dalle autorità comunali del paese natale, se un manifesto funebre da esse fatto affiggere nel 1975, anno della sua morte, lo celebrava come insigne scultore ed architetto, autentica gloria del paese. Merito, forse, delle coperture accordategli dal clero locale e segnatamente dal vescovo-patriarca Carlo Agostini, al quale nel 1968 egli aveva eretto la statua che ancora oggi campeggia in una piazza del paese[75] 

Più che l’amnistia poté l’amnesia – Non avevano interesse a presentare l’eccidio del 27 aprile come una dolorosa complicazione di un virtuoso – seppur parziale – processo di riscatto nazionale nemmeno il nuovo sindaco e la nuova amministrazione comunale provvisoria di S. Giustina. Eppure avrebbero potuto evidenziare il ruolo giocato nella dolorosa vicenda dal caso, quello stesso che il giorno successivo fece in modo che una bomba alleata destinata ai tedeschi in ritirata uccidesse a Marsango undici persone di una stessa famiglia (i due genitori e nove dei loro undici figli). A riprova della sostanziale continuità politica col ventennio fascista, in paese i «sei assessori corrispondevano» – a detta del nuovo primo cittadino Giuseppe Ruffato – «esattamente a quel gruppo di cosiddetti maggiorenti che nel 1941»[76] si erano recati a sua insaputa dal Federale di Padova per perorare la sua nomina a «segretario politico fascista» del paese in alternativa ad un suo «cugino ed omonimo»,  che col «suo zelo» e la remissività alle direttive del regime «aveva esasperato gli animi della popolazione già povera e ulteriormente tirata all’osso per l’incalzare della guerra»[77]. Presentare l’Insurrezione come un doveroso contributo al riscatto dell’Italia significava però ammettere che la guerra scatenata dal fascismo era stata considerata dagli Alleati vincitori come una colpa collettiva, di cui l’intera popolazione del Belpaese si era resa corresponsabile per aver espresso per vent’anni il proprio consenso ad un regime dittatoriale e guerrafondaio Di certo il clero di allora, allineato sulle posizioni di Papa Pacelli, non intendeva fare autocritica per l’entusiastico sostegno accordato al fascismo durante la sanguinosa e anacronistica guerra d’Abissinia o nel corso della guerra civile spagnola combattuta a fianco del gen. Franco e nemmeno per l’assordante silenzio con cui nel 1938 aveva accolto le leggi razziali o nel 1940 la dichiarazione di guerra alle democrazie occidentali.

A S. Giustina come in tutta l’alta padovana – con l’eccezione di Cadoneghe, Piazzola e Galliera Veneta – il trionfo della linea badogliana della continuità politica col passato regime fu sancito dall’esito del referendum istituzionale, che il 2 giugno 1946 vide sonoramente bocciata la Repubblica nata dalla Resistenza. Questo il significato dell’87,5 % dei consensi tributati dalla popolazione di Santa Giustina all’istituzione monarchica – probabile record a livello nazionale per i comuni oltre i 5.000 abitanti – che pure si era resa corresponsabile di tutte le malefatte del fascismo. Tale pronunciamento era localmente riconducibile alle indicazioni di voto date dal clero, ma a livello nazionale esso premiava di fatto le forze di ispirazione badogliana, che avevano appoggiato il fascismo quando deteneva il potere, tradito Mussolini e l’alleato tedesco quando le sorti della guerra avevano incominciato a volgere al peggio e si apprestavano a riciclarsi nella Repubblica nata dalla Resistenza con tutta la loro carica di cinismo e di trasformismo. Che poi il crollo della dittatura non avesse automaticamente fatto germogliare in paese un clima di autentico pluralismo politico, presupposto per un fecondo confronto delle idee, lo provava il risultato “bulgaro” delle elezioni politiche del 18 aprile 1948, che a S. Giustina assegnarono al partito cattolico il 93,9 % dei suffragi, altro probabile record a livello nazionale.

Se lo stato pietoso delle finanze pubbliche non consentì agli amministratori comunali di erogare alle famiglie dei caduti gli aiuti economici di cui avrebbero avuto urgente bisogno, l’impunità goduta da gran parte dei responsabili dell’eccidio e l’afasia dei maitres à penser locali contribuì non poco a produrre, col trascorrere del  tempo, quelle distorsioni della memoria dell’eccidio di cui si è dato conto all’inizio. Così il movimento (Resistenza) che  ha ispirato la nostra Carta Costituzionale e l’evento (Insurrezione) che la Repubblica democratica ha elevato a festa nazionale della Liberazione hanno goduto di cattiva considerazione in tutta l’alta padovana. Eppure sul piano militare anche in quest’area la sollevazione partigiana del 25 aprile aveva complessivamente corrisposto alle attese degli anglo-americani, come puntualmente riconosciuto nel suo report dal comandante della divisione neozelandese che il mattino del 30 aprile transitò per Camposampiero e, giunta all’altezza di Resana, piegò verso Mestre per proseguire la sua avanzata in direzione di Trieste, dove malauguratamente arrivò un giorno dopo i partigiani di Tito[78]. Diventò invece progressivamente un tabù la parte giocata nell’eccidio dai fascisti risentiti per la violazione degli accordi del dicembre 1944. Gavino Sabadin si è ben guardato dal parlarne nei suoi libri di memorie ed ancora nel 1997 mons. Mario Zanchin, vescovo emerito di Fidenza, continuava a negare di avervi avuto una parte, in contrasto con quanto sostenuto da Verzotto in una lettera del 15 gennaio 1945 e in un’altra di otto mesi successiva. Per l’allora cancelliere vescovile l’iniziativa aveva coinvolto il solo don Ugo Orso, amico di Alfredo Allegro, incline al doppiogioco e provvisto di un incarico ufficiale presso la Curia padovana per cui era in grado di conferire col vescovo quasi tutti i giorni[79]. Ovviamente la vera natura e la vera portata di quel compromesso fu tenuta nascosta anche da Graziano Verzotto, che accettò di diventare il bersaglio privilegiato del risentimento popolare guadagnandosi in compenso la riconoscenza di chi, in funzione anticomunista, aveva fino all’ultimo flirtato coi fascisti. La perdurante impopolarità in paese lo indusse, nel 1947, ad emigrare in Sicilia, dove gli indubbi talenti uniti ad una non comune spregiudicatezza – testimoniata dai disinvolti rapporti presto stabiliti con boss mafiosi di prima grandezza – gli agevolarono una brillante carriera politico-manageriale. 

L’elevazione di don Lago a “pastore eroico” – Parallelamente a S. Giustina in Colle i dirigenti cattolici si affrettarono ad elevare il parroco ed il cappellano uccisi il 27 aprile 1945 a martiri del dovere sacerdotale. Già nel secondo numero uscito dopo la Liberazione il settimanale diocesano «La Difesa del Popolo» sosteneva che don Lago aveva perso «la vita per amministrare i sacramenti ai patrioti colpiti a morte dal fuoco tedesco»[80]. Anche nelle due successive pubblicazioni parrocchiali – Pastore eroico (1961) e Vocazione eroismo (1985) – fu dato per scontato che i due sacerdoti fossero stati soppressi perché sorpresi a somministrare i conforti religiosi a Fausto Rosso morente. Nel secondo dei due libri don Lago veniva addirittura elevato a vittima sacrificale, essendosi volontariamente offerto al supplizio al posto dei suoi parrocchiani («Se volete una vittima uccidete me, sono pronto a pagare per tutti»)[81]. Si trattava di una ricostruzione priva di fondamento storico, perché già nella sua relazione del 15 aprile 1946 Verzotto aveva presentato don Lago «colpito mentre chiedeva grazia»[82]. Prima ancora la cronaca di don Bison lo aveva raffigurato nell’umanissima  posizione di chiedere la grazia per sé e non certo per i suoi parrocchiani, che peraltro erano stati uccisi prima di lui («L’ultimo fucilato fu l’arciprete don Giuseppe lago, Parroco, che arrivata l’ora sua, tenendo le braccia alzate domandò grazia tre volte: alla terza petizione una scarica lo colpiva alla bocca e cadeva a terra perdonando generosamente ai suoi successori»)[83]. Tale dinamica risulta autorevolmente confermata dalle carte (1947) del processo contro Ada Giannini («Dopo la fucilazione dei ventuno martiri fu vista accostarsi al cadavere del parroco, dargli un calcio e sputargli sul viso esclamando: Volevi la grazia e questa è la grazia!»)[84]. Anche nella testimonianza di Gino Marcato don Lago «con le braccia alzate invocava pietà proclamandosi innocente»[85]. Ovviamente nei decenni successivi i due sacerdoti hanno sempre occupato un posto privilegiato nelle commemorazioni ufficiali, tanto da far avvertire il testo della lapide deposta nel 1985 come poco rispettoso della memoria degli altri 22 caduti di quel tragico 27 aprile 1945.   

Una memoria schizofrenica – Diversamente da S Giustina in Colle, nel cippo deposto nel 1946 sul luogo del massacro di località Cacciatora, accanto a quella “nazista” venne subito evidenziata la corresponsabilità “fascista”. A ridosso dell’evento quest’ultima doveva costituire un convincimento diffuso, a desumere dalle espressioni di risentimento e dalle richieste di severa punizione dei fascisti repubblichini contenute in alcune lettere di madri e spose delle vittime conservate fra le carte del btg. “Pegorin”[86] di S. Martino di Lupari (oggi depositate presso l’archivio dell’Istresco di Treviso). Non più restaurata negli anni successivi, la parola “fascista” è divenuta col tempo pressoché illeggibile, a differenza di quella “nazista”, come documenta una foto scattata dall’autore nel 2005[87]. La sorte occorsa alla scritta può essere elevata a metafora del processo di elaborazione della memoria delle corresponsabilità fasciste nelle due stragi che a fine aprile 1945 hanno insanguinato l’alta padovana. Non desta pertanto meraviglia che nella lapide deposta nel 1959 dalle due formazioni di patrioti competenti per territorio – la I brigata “D. Chiesta” di Cittadella e la brigata “C. Battisti” di Castelfranco –  la connotazione della strage del 29 aprile 1945 da ideologica (“nazista”) sia diventata etnica (“tedesca”), in concomitanza con la definitiva espunzione delle corresponsabilità fasciste. Tale processo, nient’affatto casuale, era iniziato per tempo, se a guerra finita le nuove autorità comunali di S. Martino di Lupari avevano preteso il «rilascio del brevetto partigiano Alexander» a tutte indistintamente le vittime della strage del 29 aprile, col risultato che – in barba alle proteste dell’ex comandante del btg. Pegorin Arduino Ceccato – ne beneficiarono anche alcuni soggetti di notorie simpatie fasciste, uccisi dai tedeschi nei pressi del caffè “Aurora” in cui si erano rifugiati dopo aver disatteso l’ordine di coprifuoco impartito dai partigiani locali[88].

Simile la parabola riservata, nell’alta padovana, alle memorie della Resistenza e dell’Insurrezione, oggetto di alterni processi di esaltazione e denigrazione, sulla base del contingente tornaconto politico. Ambedue celebrate, a guerra appena finita, come epopee gloriose dai diari storici delle diverse formazioni patriottiche di area badogliana, tornarono nell’ombra negli anni più bui della Guerra fredda per diventare materia di competizione politica e partitica dopo l’elezione a presidente della Repubblica (1964) dell’antifascista Giuseppe Saragat. Ed ecco in Il pastore eroico (1961) la Resistenza ridotta a «era dei soprusi, delle rappresaglie, delle vendette, della caccia spietata all’uomo» e i partigiani equiparati ai fascisti, in quanto gli uni e gli altri «costretti a imbracciare nuovamente le armi, combattendo e scannandosi a vicenda»[89]. Ma ecco anche, a seguire, la rivendicazione del primato dei cattolici nella resistenza padovana effettuata da G.E. Fantelli nella sua pubblicazione del 1965 e la richiesta di una medaglia d’argento per meriti resistenziali per Cittadella (ottenuta con decreto 8 ottobre 1969). E, parallelamente, una rivalutazione del fascismo, se in un storia di Fratte e Santa Giustina, edita nel 1972, don Olindo Casarin attribuiva a Benito Mussolini il merito di aver messo «la calma» dopo il «burrascoso periodo di follia anarcoide» seguito alla prima guerra mondiale:

[…] La sua Marcia su Roma e la presa del Potere segnò [sic!] per l’Italia un nuovo passo in avanti. Con lui ritornò [sic!] l’ordine e il rispetto alla legge. Conciliò l’Italia con il Papa, Patto del Laterano 1929, sviluppò la coltura del grano, bonificando le paludi Pontine nel Lazio, facendo nuovi paese, introdusse il sistema corporativo, fondò l’Impero con la conquista d’Etiopia. Peccato, che poi fuorviò portando l’Italia nella tragedia della guerra, con la famigerata alleanza con la Germania, che tanta rovina procurò alla patria, con morti e distruzioni[90].

Perfino un sacerdote colto come mons. Luigi Rostirola di Camposampiero aveva lasciato intendere, nella cronistoria della sua  parrocchia, che Mussolini era impazzito solo il 10 giugno 1940, quando si era imbarcato in un conflitto dall’esito incerto, e non invece quando aveva abolito i partiti, i sindacati, i giornali d’opposizione, le libere elezioni o messo in galera gli oppositori. E perfino la sua presa di distanza dal regime era stata tardiva, se ancora il 13 febbraio 1943 aveva promosso in paese una imponente «processione penitenziale e propiziatrice» per impetrare da S. Antonio la vittoria delle armi fasciste uscite malconce dall’infelice campagna di Russia. Di più, l’8 settembre aveva accolto «con ribellione d’animo e un dolore immenso» le «umilianti e vergognose condizioni dell’armistizio»[91], un evento che pure preludeva alla vittoria degli Alleati e al ripristino della democrazia.

Da parte dei sodali cittadellesi di Graziano Verzotto il culmine dell’opportunismo fu però raggiunto nel 1975 con la richiesta di una medaglia d’oro per eccezionali meriti militari per la cittadina di cui Sabadin era stato sindaco. Nella proposta di legge presentata il 23 gennaio 1975 da una ventina di parlamentari – primo firmatario l’on. Canestrari – si attribuiva «alla paurosa falla dello schieramento tedesco prodottasi a Cittadella il 28 aprile» 1945 il merito di aver provocato nientepopodimeno che  «il disfacimento irreversibile di tutte le gradi unità nemiche che in quel momento si trovavano nel Veneto»[92]. Esagerazioni prontamente deplorate dal sen. Emilio Pegoraro, ex partigiano garibaldino di Fontaniva[93].

Con l’avvento di Berlusconi la memoria della Resistenza e dell’Insurrezione imboccava una direzione opposta, fino all’ammissione che nelle file cattoliche dell’alta padovana la lotta di liberazione aveva interessato poche decine di soggetti e alla negazione di una vera «insurrezione popolare» a ridosso del 25 aprile 1945[94]. Ciliegina nella torta, alcuni fra gli ex resistenti badogliani cittadellesi arrivarono a rifiutare lo stesso appellativo di “partigiano” in favore di quello risorgimentale di “patriota”[95]. Da parte sua nelle memorie pubblicate nel 2008 – un concentrato di reticenze, omissioni e falsificazioni della realtà più unico che raro – Graziano Verzotto è arrivato a riversare la colpa dell’eccidio del 27 aprile 1945 al «gruppetto di partigiani comunisti rimasti nel battaglione “Sparviero”» (sei in tutto!). Agendo «di testa loro» e occupando «il municipio del paese», il mattino del 26 aprile 1945 costoro «diedero inizio agli scontri col nemico» e «con l’uccisione dei tedeschi e l’occupazione dei loro depositi» provocarono la dura reazione dei nazifascisti, ai quali i patrioti da lui comandati non poterono opporsi perché «in numero nettamente inferiore»[96]. Ma 62 anni prima non aveva scritto,  nel diario storico della brigata, che l’unico tedesco rimasto ucciso il 26 aprile era stato il portaordini passato per le armi dai suoi uomini presso villa Custoza, episodio generalmente attribuito al suo collaboratore Fausto Rosso?

Egidio Ceccato                      27   luglio 2020


[1] Questo saggio costituisce un’elaborazione della  “Appendice” inserita nel libro di Giuseppe Criscenti Vito Filipetto L’uomo, il maestro, il partigiano, pubblicato nel 2016.

[2] III brigata “Damiano Chiesa”, Breve relazione sintetica, in E. Ceccato, Camposampiero 1866-1966. Un comune dell’alta padovana nel crepuscolo della civiltà contadina, Signum edizioni, Limena, 1988, p. 520.

[3] E. Ceccato, Resistenza e normalizzazione nell’Alta Padovana. Il caso Verzotto, le stragi naziste, epurazioni ed amnistia, la crociata anticomunista, Centro studi Ettore Luccini, Padova, 1999,  pp. 244-245.

[4] E. Ceccato, Guerra, Resistenza e rinascita di Castelfranco Veneto. La vicenda di Guido Battocchio (1919-2001), Istresco, Treviso. 2007, pp. 132-145.

[5]  G. G. Beghin, Il campanile brucia. I giorni della paura e quelli della speranza, Grafiche TP, Loreggia, 2005, p. 169.

[6] Alle vittime inermi della più crudele armata viltà del 27 aprile 1945 S. Giustina in Colle dedica, Tipografia vescovile, Padova, 1945.

[7] III brigata “Damiano Chiesa”, Cenni storici del I e del II battaglione, in E. Ceccato, Camposampiero 1866-1966, cit. p. 524.

[8] G. Ruffato, Relazione, Ufficio stralcio della 3a brigata Damiano Chiesa, S. Giustina in Colle 3 agosto 1946, in Archivio CASREC (Centro di Ateneo per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea) di Padova,  b. 12.

[9] A. Alessi, Vocazione eroismo, Bertoncello,  Cittadella, 1985, p. 8.

[10] Cronistoria della parrocchia di Fratte “Giornate del 26 e 27 aprile 1945”, in E. Ceccato, Resistenza e normalizzazione, cit. p. 247.

[11] G. E. Fantelli, La resistenza dei cattolici nel padovano, FIVL, Padova, 1965, nota 372 a pp. 192-193.

[12] G. Ruffato, Alba di libertà, senza note tipografiche [ma Gallarate novembre 1985], p. 42.

[13]P. Gios, La cronistoria del parroco di Santa Giustina in Colle don Giuseppe Lago, Libreria padovana editrice, Padova, 1995, p.67.

[14] E. Ramazzina, Santa Giustina in Colle. Gli anni della seconda guerra mondiale, Comune di Santa Giustina in Colle, Bertato, Villa del Conte, 2002, p. 203.

[15] E. Ceccato, Trebaseleghe 1938-1948 Resistenza e dintorni. Fascismo, guerra e Liberazione nel nord-est padovano, Comune di Trebaseleghe, 1999, pp. 250-255.

[16] III brigata Damiano Chiesa, Relazione sull’attività militare svolta dal I e II battaglione, cit. 

[17] G. Ruffato, Relazione, cit.

[18] La tragedia di S. Giustina in Colle del 27 aprile 1945 descritta da lo scampato Luigi Bragadin. Manoscritto di 95 pagine (in copia presso l’autore), pp. 25-26.

[19] Relazione sull’attività militare svolta dal I e II battaglione, cit.

[20] Descrizione ampia e precisa dei misfatti operati dai nazifascisti, in E. Ceccato, Camposampiero 1866-1966, cit. p. 527.

[21] G. Verzotto, Operazioni dei partigiani  nel periodo insurrezionale a S. Giustina in Colle, S. Giustina in Colle 15 aprile 1946, in Archivio CASREC di Padova,  b 30.

[22] P. Gios, op. cit. p. 132.

[23] Ivi, p. 137.

[24] E. Ceccato, Camposampiero 1866-1966, cit. p. 518.

[25] G. G. Beghin op. cit.  p. 188.

[26] Alle vittime inermi della più crudele armata viltà, cit.

[27] G. Verzotto, Operazioni dei partigiani nel periodo insurrezionale, cit.

[28] E. Ceccato, Il sangue e la memoria. Le stragi di Santa Giustina in Colle, San Giorgio in Bosco, Villa del Conte, San Martino di Lupari, Castello di Godego (27-29 aprile 1945) fra storia e suggestioni paesane, Cierre edizioni, Sommacampagna, 2004, p. 18.

Nella relazione intitolata Attività svolta dai partigiani e patrioti di S. Giustina in Colle  lo stesso Verzotto  ha considerato Fausto Rosso deceduto «in seguito alle ferite riportate».

[29] Alle vittime inermi della più crudele armata viltà, cit.

[30] G.G. Beghin op. cit. p. 165.

[31] F. Zanetti, Dai massacri del Grappa e della Pedemontana s’innalza solenne il grido di vittoria e di pace dei Martiri del secondo Risorgimento d’Italia, Officina tipografica vicentina, Vicenza, 1946, p. 100.

[32] G. G. Beghin, op. cit. pp. 167-168.

[33] G. Verzotto, Attività svolta dai partigiani e dai patrioti di S. Giustina in Colle, cit.

[34] Ibidem.

[35] III brigata Damiano Chiesa, Relazione sull’attività militare svolta dal I e II battaglione, cit.

[36] G.G. Beghin, op. cit. pp. 116-117.

[37] Ibidem.

[38] La tragedia di Santa Giustina in Colle, cit. p. 30.

[39] G. G. Beghin op. cit. p.117.

[40] Cronistoria della parrocchia di Fratte, cit.

[41] III brigata Damiano Chiesa, Relazione sull’attività militare svolta dal I e II battaglione, cit. 

[42] G. Verzotto, Operazioni dei partigiani nel periodo insurrezionale, cit.

[43] G. G. Beghin, op. cit. p.189.

[44] Ibidem.

[45] E. Ceccato, Il sangue e la memoria, cit. p. 38.

[46] Ivi,  p. 171.

[47] P. Gios, op. cit., nota 129 di p. 70.

[48] E. Ceccato, Il sangue e la memoria, cit. pp. 81-117.

In effetti i due militari tedeschi erano rimasti vittime di un mitragliamento aereo alleato in località Borghetto.

[49] La tragedia di S. Giustina in Colle, cit. p. 6.

[50] F. Zuanon,  Ceccato e la “memoria taroccata” della strage di S. Giustina in Colle, «Il mattino di Padova»,  9 gennaio 2006.

[51] Sulla valenza politica del compromesso cfr. E. Ceccato, L’accordo stipulato dal partigiano Graziano Verzotto coi nazifascisti padovani nel dicembre del 1944, luglio 2020.

[52] Descrizione ampia e precisa dei misfatti operati dai nazifascisti, cit.

[53] P. Gios, op. cit. p. 132.

[54] La tragedia di S. Giustina in Colle, cit.  p. 32 e p. 24.

[55] Ivi, p. 24.

[56] Ivi, p. 38.

[57] G. Verzotto, Operazione dei partigiani nel periodo insurrezionale, cit.

[58] La tragedia di S. Giustina in Colle, cit. p. 45.

[59] E. Ceccato, Il sangue e la memoria, cit. pp. 23-26 e pp. 253-254.

[60] E. Ceccato, Una villa e dodici contrade. Galliera Veneta dall’unità d’Italia al boom economico, Comune di Galliera Veneta, 2009, pp. 183-185.

[61] Cfr. E. Ceccato,  L’accordo raggiunto dal partigiano Verzotto coi nazifascisti padovani nel dicembre del 1944.

[62] Denuncia a carico dei signor Verzotto Graziano di S. Giustina in Colle, a firma di Amerigo Torresin, Campodarsego 1 agosto 1945 in ASPd (Archivio di Stato di Padova), Gab. Pref. (Gabinetto Prefettura), b. 626.

[63] La tragedia di S. Giustina in Colle, cit. pp. 32-33.

[64] P. Gios, op. cit.  p. 133.

[65] Alle vittime inermi della più crudele armata viltà, cit. pp. pp. 9-11.

[66] P. Gios, op. cit.  p. 132.

[67] E. Ceccato, Il sangue e la memoria, cit. pp. 169-170.

[68] Ivi, p. 171.

[69] Discorso di don Giuseppe Verzotto in occasione del 30 anniversario della morte del parroco don Giuseppe lago, del cappellano don Giuseppe Giacomelli e delle altre 22 vittime innocenti di Santa Giustina in Colle, in Commemorazione dei XXX anniversario dei martiri di S. Giustina in Colle, S. Giustina in Colle 27 aprile 1978.

[70] E. Ceccato, Resistenza e normalizzazione nell’Alta Padovana, cit. pp. 253-254 ed E. Ramazzina, Il processo ad Ada Giannini per l’eccidio nazista di Santa Giustina in Colle, Bertato, Villa del Conte, 2003.   

[71] Conversazione dell’autore con Graziano Verzotto, S. Giustina in Colle 13 febbraio 1995.

[72] E. Ceccato, Resistenza e normalizzazione, cit. p.  153.

[73] E. Ceccato, Il sangue e la memoria, cit. pp. 49-50.

[74] Ivi, cit. pp. 81-94.

[75]Ivi, pp. 87-88 ed E. Ceccato, La morte del comandante partigiano “Masaccio”: delitto senza castigo. Il sangue dei vincitori e l’impunità dei massacratori del Grappa e della Pedemontana, Centro studi Ettore Luccini, Padova, 2009, pp.145-146.

[76] G. Ruffato, op. cit. p. 51.

[77] Ivi, p. 13.

[78] E. Ceccato, Il sangue e la memoria, cit. p. 271.

[79] Conversazione telefonica dell’autore con mons. Mario Zanchin, 7 aprile 1997.

[80] Doveroso tributo, «La Difesa del Popolo» 24 giugno 1945.

[81] A. Alessi, Vocazione eroismo,  Comunità parrocchiale di S. Giustina in Colle, Padova 1985, p. 164.

[82] G. Verzotto, Operazioni del partigiani nel periodo insurrezionale, cit.

[83] P. Gios op. cit. p.132.

[84] E. Ceccato, Il sangue e la memoria, cit. p. 254.

[85] G. Marcato, Documentazione di un sopravvissuto all’eccidio perpetrato dai tedeschi in
Santa Giustina in Colle (PD) il 27 aprile 1945
. Dattiloscritto di 3 pagine, senza data, in copia presso l’autore.

[86] E. Ceccato, La morte del comandante partigiano Masaccio, cit. p. 145.

[87] E. Ceccato, Il sangue e la memoria, cit. p. 89.

[88] Lettera di Arduino Ceccato al Comando regionale veneto di Padova, S. Martino di Lupari 8 agosto 1945, in archivio INSMLI (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia) di Milano, Fondo CVL b. 138  fasc. 407.

[89] A. Alessi, Vocazione eroismo, cit. p. 163.

[90] O. Casarin, Storia di Fratte e di S. Giustina in Colle, tipografia euganea, Este, 1972, p. 168.

[91] E. Ceccato, Camposampiero 1866-1966, cit. pp. 512-513.

[92] Camera dei deputati, Proposta di legge n. 3401 presentata il 23 gennaio 1975, primo firmatario on. Canestrari. Oggetto: concessione della medaglia d’oro al valor militare alla città di Cittadella.

[93] E. Pegoraro, Una storia “di parte” della resistenza non rende un buon servizio alla storia, Fabbrica società stato, luglio 1980.

[94] L. Scalco, Volontari della libertà. I patrioti cittadellesi per l’indipendenza e l’unità nazionale. Prefazione di Giannantonio Paladini, Presentazione di Gianni Conz, Bilioteca Cominiana, Cittadella,  2000,  pp. 21-22.

[95] Ivi,  p. 27.

[96] G. Verzotto, Dal Veneto alla Sicilia. Il sogno infranto: il metanodotto Algeria-Sicilia. Le memorie di Graziano Verzotto, La Garangola, Padova, 2008, p. 30.

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